Andrea Ginzburg, "Sebastiano Brusco e la facoltà di Economia di Modena"

Facoltà di Economia, "In ricordo di Sebastiano Brusco", Modena 29 maggio 2002

1. Ritengo molto appropriata la decisione di intitolare a Sebastiano Brusco la Biblioteca della Facoltà di Economia. Anni fa, Pasolini ha osservato che in Italia raramente viene adeguatamente riconosciuto il contributo delle persone alla costruzione delle istituzioni.. L’iscrizione del suo nome aiuterà invece a proteggere dall’usura del tempo il ricordo del suo contributo, che è stato cruciale, alla fondazione della Facoltà di Modena (oltre che della stessa Biblioteca ).
Sebastiano era un costruttore di lungo respiro. Un costruttore di rapporti personali, di strategie di ricerca, di politiche di intervento, di istituzioni. E anche di mobili: quando l’ho conosciuto, nel 1970, amava incanalare il suo grande intuito topologico- spaziale –e la sua correlata passione per gli incastri, gli snodi, gli ingranaggi – nella fabbricazione, per sé, di tavoli, sedie e armadi.
In che senso Brusco- che ricoperse solo per un breve periodo cariche direttive- ebbe un ruolo decisivo nella fondazione e nello sviluppo della Facoltà ? Tecnicamente, la Facoltà fu istituita nel 1968 da un comitato di docenti nominati dal Ministero. Vi figurava, per l’economia, inizialmente Siro Lombardini, e poi Pierangelo Garegnani. Come racconta lo stesso Sebastiano nelle brillanti e auto-ironiche note introduttive ai suoi saggi ripubblicati nel 1989, “come molte delle iniziative importanti in Emilia” la Facoltà di Modena era sorta da un compromesso fra il PCI e la Democrazia cristiana. Vi avevano contribuito diversi enti finanziatori locali, fra cui il Comune (e quindi il PCI, rappresentato dal sindaco Rubes Triva), e la Camera di Commercio ( di cui era presidente un esponente della sinistra DC, Dario Mengozzi). Per sollecitazione del PCI, l’accordo prevedeva (in questo consisteva il compromesso) che accanto al tradizionale corso di laurea per la formazione di commercialisti ci fosse un corso in economia politica. Per questo si parlò allora di Facoltà “atipica”, anche perché all’epoca i piani di studio delle Facoltà di Economia e Commercio erano molto rigidi e il sovraccarico delle materie lasciava uno spazio molto ridotto all’approfondimento dell’analisi economica. (Un aspetto collaterale e persistente di questa “atipicità” fu il mantenimento di un biennio comune fra i diversi corsi di laurea presenti in Facoltà ).
Del gruppo di economisti, che avrebbero successivamente formato il corpo docente, Brusco fu il primo ad arrivare, nel 1968, per insegnare economia applicata l’anno successivo. Accadde così che, dopo aver passato il vaglio di Garegnani, gli economisti che negli anni successivi arrivarono alla spicciolata nei locali qui di fronte, in via Berengario 31 (assai più angusti e meno sontuosi di quelli odierni), dovessero affrontare anche gli occhi indagatori e pungenti di Sebastiano. La sua diffidenza durava pochissimo: si trasformava immediatamente in una calda e gentile accoglienza. Essendo l’unico docente residente (quasi tutti erano pendolari, in gran parte da Roma e Milano) Brusco e la sua casa erano il centro delle informazioni, dei progetti comuni, delle discussioni, spesso accese e sempre protratte fino a notte fonda. Ho appreso poi che Sebastiano era chiamato in famiglia, in particolare dal fratello, il “pifferaio magico”. Mi sono chiesto spesso da dove provenisse questa capacità fascinatrice: certamente dall’energia trascinante delle sue convinzioni forti, ma probabilmente anche dalla coesistenza, in lui, di aspetti opposti. Che potevano anche depistare chi si fosse fermato a coglierne solo uno di essi. Qualunque descrizione della sua personalità suggerisce infatti aggettivi di significato contrastante: semplice e complicato, diretto e contorto, ingenuo e malizioso, tagliente e “smussante”, squadrato e barocco, rude e gentile…. Credo che senza una personalità catalizzatrice come la sua sarebbe stato difficile far affluire qui e far convivere per una decina di anni persone in cui molti tratti comuni si accompagnavano a diversità di impostazione culturale, oltre che di carattere, altrettanto evidenti. Fra i tratti comuni mi limiterò a ricordare che gli economisti erano tutti o allievi di Garegnani o allievi di Sylos Labini (anche fra questi ultimi, l’influenza esercitata dal programma critico-ricostruttivo della teoria economica proposto da Sraffa e Garegnani era rilevante). Lo stesso Sebastiano, laureato in agraria e poi assistente volontario di economia agraria, aveva incontrato Garegnani a Sassari, nei primi anni ’60, in occasione di un suo breve periodo di insegnamento alla Facoltà di Giurisprudenza. Da questo incontro era derivato lo stimolo a studiare economia a Cambridge, dove, oltre al mitico Sraffa, altri importanti economisti all’epoca stavano animando accesi dibattiti contro-corrente, innanzi tutto alcuni stretti collaboratori e allievi di Keynes come Richard Khan, Joan Robinson, Nicholas Kaldor, ma anche significativi studiosi di economia industriale come Austin Robinson e Z. Silberston. L’aver trascorso un periodo di perfezionamento a Cambridge (UK) era un altro aspetto che accomunava non tutti, ma molti dei docenti di economia arrivati a Modena fra il 1969 e i primi anni ’70. E poi, almeno a grandi linee, sul terreno della didattica, della ricerca e dell’impegno politico, alcuni orientamenti erano largamente condivisi. Da una forte critica, tipica degli anni post-68, della struttura gerarchica dell’università e dello scarso rispetto per le esigenze degli studenti erano sorti rapporti diretti e interattivi con gli studenti, e lo sviluppo di servizi collettivi di Facoltà (Biblioteca centralizzata, laboratori) in un’epoca in cui altrove i baroni dei dipartimenti stavano ancora costruendo i loro feudi con ingenti duplicazioni e sprechi. Lo stesso Brusco partecipò attivamente per anni al consiglio direttivo della Biblioteca. Sul piano della ricerca, Marx, Sraffa, Keynes e Kalecki erano punti di riferimento teorico condivisi, salvo poi combinarli e interpretarli in modo diverso. Ci accomunava anche un forte interesse interdisciplinare, che può facilmente spiegarsi anche alla luce dei nomi ora indicati. Questo spiega l’intenso scambio con gli storici (all’epoca Giorgio Mori, che molto contribuì anche alla fondazione della Biblioteca, e Paggi), con i sociologi (come Vittorio Rieser e Giovanni Mottura), con i giuristi selezionati da Cottino (ricorderò accanto a Cavazzuti, Renzo Costi), con i matematici e gli statistici (ricordo con affetto Gilda Cossarini e Claudio Michelini), e con gli economisti dell’area aziendale (in particolare dopo l’arrivo di Marco Onado e discepoli). Sul terreno politico, gli economisti avevano provenienze diverse, ma avevano anche alcuni tratti comuni: nessuno di loro era iscritto al PCI (salvo Guido Fabiani, che si aggiunse alcuni anni dopo), che anzi veniva accusato di eccessiva moderazione e subalternità culturale. Con intensità diversa, per il gruppo degli economisti il principale riferimento politico-culturale era costituito dalle idee maturate entro la sinistra sindacale, cioè presso il sindacato metalmeccanico della CGIL, la FIOM. Nel 1973 chiamammo Vittorio Foa a insegnare Storia sociale contemporanea. Tentammo, per un anno, l’esperimento di unire, nell’insegnamento di Economia Politica del primo anno, studenti e operai che usufruivano delle 150 ore. Per il sindacato, partecipammo, con ruoli concordati fra noi e quasi fissi, a innumerevoli corsi di formazione sindacale. Didattica, ricerca e impegno civile e politico trovarono espressione collettiva anche in due corsi di “elementi di economia per militanti” di una settimana ciascuno (nel 1973 e 1974) e nel 1975 in un convegno sul Piano del Lavoro, organizzato con il consiglio e il sostegno di Vittorio Foa. All’epoca l’economia era di moda, come facile grimaldello per cambiare il mondo e se stessi (le generazioni successive si sarebbero poi orientate verso la psicologia), e a questi corsi, con cui avevamo cercato anche di reclutare a livello nazionale studenti interessati al nostro progetto, parteciparono diverse centinaia di persone provenienti da tutta Italia. Si parlò addirittura all’epoca, di “scuola di Modena”, unendo, e confondendo assai impropriamente, il livello di astrazione dei dibattiti e dei convegni sulla teoria del valore di Marx e quello di alcuni interventi su temi sindacali o di politica economica . Ancora adesso mi viene da sorridere quando incontro persone che, rievocando la Facoltà di Modena dell’epoca, la associano assurdamente all’idea del salario reale come variabile indipendente, in realtà un’astrazione teorica (indipendente significa qui soltanto che non si assume l’esistenza di una relazione generale e definita con la tecnologia e le quantità prodotte) che nessuno di noi si è mai sognato di proporre come linea di politica salariale.
E’ possibile che, come ha scritto Brusco, il progetto che univa insieme persone assai diverse cominciò a sgretolarsi quando sulla scena politica irruppero i partiti, e il sindacato cominciò a perdere colpi. Ma probabilmente anche altri fattori, legati al cambiamento degli orientamenti individuali nella ricerca, oltre che alla dinamica delle relazioni personali, ebbero un peso importante. E’ vero infatti che impegno nella didattica, nella ricerca e nella politica al di là di alcune uniformità generali si combinavano poi in ciascuno dei docenti con impostazioni profonde, a guardar bene, fra loro molto diverse. Il modo in cui questi tre piani si associarono nel caso di Sebastiano mi sembra degno di attenzione, perché qui sono racchiusi sia la sua impronta particolare che le ragioni ultime della compattezza e coerenza della sua visione analitica. Una compattezza che ha consentito al suo programma di ricerca di risentire assai meno di altri dell’usura del tempo, così da fornire ancora oggi stimoli e prospettive di analisi fresche e vitali.

2. Alcuni ascendenti culturali della visione di Brusco sono stati già indicati da lui stesso, e da altri. Lo stesso Sebastiano, per esempio, ha ricordato di aver tratto da Sraffa sostegno all’idea che il salario reale non dipende dalla tecnologia. Il suo rapporto di conversazione critica con Marx in tema di economie di scala è esplicitamente riconosciuto. Fra gli economisti industriali, l’influenza della Penrose, in primo luogo (ad esempio, sul concetto di “economie interstiziali”), e in seconda battuta di Austin Robertson, Pratten e Silberston, è indubbiamente significativa. Non è di questo che vorrei parlare, tuttavia, ma di un’influenza che a me pare, allo stesso tempo, cronologicamente precedente e più profonda. Che Sebastiano si accostasse allo studio del lavoro a domicilio, dei distretti industriali, dell’agricoltura “ricca” modenese e così via, a partire dal contrasto con ciò che aveva visto in Sardegna è stato spesso apertamente riconosciuto da lui stesso, ed è stato sottolineato recentemente da Vianello. Del resto, solo a partire da una realtà di sottosviluppo poteva essere superato lo stereotipo di sinistra che impediva di riconoscere l’avvicinarsi alla piena occupazione nella realtà del Nord Est degli anni ‘70. Vorrei sostenere qui che venendo via dalla Sardegna, Sebastiano aveva portato con sé non solo un’esperienza empirica, (Sebastiano amava camuffarsi da empirista, mentre lo era molto meno di quanto pretendesse), ma anche idee molto precise sugli aspetti sia formali che sostanziali del fare ricerca. A me sembra che non solo i temi, ma anche il modello di ricerca che Sebastiano ha avuto costantemente in mente, al di là di differenze di dettaglio, siano scaturiti dalla suggestione, dallo sviluppo, dalla elaborazione di un’opera molto importante di un giurista a cui Bastianino era molto legato, Antonio Pigliaru, prematuramente scomparso nel 1969. Ritengo che il libro di Pigliaru su La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, pubblicato nel 1959, di per sé bellissimo, possa fornire anche una chiave di lettura degli scritti di Brusco, eludendo anche, nel contempo, alcuni suoi depistaggi. Dirò di questo libro solo il minimo indispensabile per il discorso che ci interessa qui.
Il libro si compone di un centinaio di pagine di introduzione, e di 16 pagine di testo. In queste ultime, in 23 commi modellati (“sin dove è stato possibile”, scrive Pigliaru) sul linguaggio del Codice penale italiano, si ricostruisce per iscritto un codice non scritto, cioè l’ordinamento giuridico che si esprime nella pratica della vendetta in Barbagia. Pigliaru riconosceva che la sua ricerca era stata stimolata dal suo maestro, Giuseppe Capograssi. Ma la ricerca si inseriva, in senso più ampio, nel filone di sociologia del diritto inaugurato da Georges Gurvitch. Questo filone poggia su due pilastri, sottostanti anche la ricerca di Pigliaru: l’idea della pluralità degli ordinamenti giuridici e l’idea del diritto sociale. Il pluralismo giuridico sostiene che “il potere giuridico non risiede soltanto nello Stato, ma..anche in molti altri enti diversi e indipendenti dallo Stato; che il diritto dello Stato non è l’unico diritto esistente, ma che esistono numerosi altri ordinamenti giuridici diversi e indipendenti dallo Stato” (Treves). Il diritto sociale è per Gurvitch “il diritto di integrazione e collaborazione che si manifesta in ogni comunità…intesa come totalità irriducibile alla somma dei suoi membri”. Nel diritto sociale della comunità “l’interpenetrazione delle pretese e dei doveri, delle attribuzioni e degli imperativi, è equilibrata al punto che pretese e doveri del tutto da una parte e dei membri dall’altra appaiono più o meno equivalenti”. Si conclude, quindi, che “il diritto sociale della comunità è normalmente il più lontano dal diritto di subordinazione e di dominazione” (G., p. 187). Nel saggio di Pigliaru, accanto a questi due pilastri di fondo, è possibile sottolineare altri tre aspetti. Il primo è la consapevolezza della necessità di ricostruire un’unità strutturale (il codice della vendetta della comunità barbaricina)e di esaminarne i punti di conflitto con il codice statale. Il secondo è l’esplicito riconoscimento che il codice della comunità coesiste, ed è anche in certa misura influenzato, dal codice penale dello Stato . Questo riconoscimento è importante perché implica, accanto all’idea del pluralismo giuridico, il rifiuto della cosiddetta teoria della modernizzazione, basata sull’idea della dicotomia tradizione-modernità (dove il primo termine è un residuo transeunte del passato). Il terzo aspetto riguarda la fonte e i metodi della ricerca. Sono le premesse e l’oggetto della ricerca a indicarne le fonti, e non viceversa, come generalmente accade. La scelta delle fonti influenzerà le domande che la ricerca può porsi, la metodologia della ricerca e in definitiva le risposte stesse che ne possono emergere. Per Pigliaru, la scelta era obbligata dalle sue domande iniziali: fonti orali, pratiche e riti del folklore, fiabe raccolte e pubblicate. Non può sorprendere che Lombardi Satriani, in occasione della recente riedizione del libro di Pigliaru, lo definisse “un classico dell’antropologia” (oltre “un’opera profondamente innovatrice del filone italiano di demologia giuridica”).

3. La definizione di Brusco come “economista antropologo” è stata recentemente proposta, in un affettuoso ricordo, da Enzo Rullani. Concordo pienamente con questa definizione. Con una motivazione un po’ diversa da quella da lui proposta. Per Rullani, “la visione antropologica [in quanto percepisce dall’interno, senza diaframmi culturali e fisici il suo oggetto di studio] scavalca le epoche e i modi di produzione, le società e gli ordinamento giuridici. Per arrivare all’essenza: al rapporto tra uomo e uomo, mediato dal bisogno di fidarsi (per quanto si può) e dalla necessità di non fidarsi (oltre certi limiti)”. L’illusione di attingere “all’essenza” attraverso l’osservazione partecipante, senza diaframmi culturali, non può tuttavia essere attribuita a Sebastiano. Ho cercato di argomentare che i “diaframmi culturali” di Sebastiano erano stati attinti direttamente da Pigliaru e indirettamente da Gurvitch.
Lo scritto di Sebastiano in cui in modo più evidente si scorge l’influenza della ricerca di Pigliaru è sicuramente il lavoro pubblicato nel 1999, Le regole del gioco dei distretti industriali.
E’ impossibile leggere la sua ricostruzione del “codice” dei distretti, con relative sanzioni per chi infrange le regole non scritte, senza accostarlo al codice barbaricino raccolto da Pigliaru. Sarebbe tuttavia riduttivo restringere l’influenza della linea di ricerca di Pigliaru a questo particolare contenuto. Se accostiamo fra loro i numerosi temi di cui Sebastiano si è occupato (fra cui: lavoro a domicilio, la persistenza delle aziende contadine, la persistenza e vitalità delle piccole imprese e la loro organizzazione in distretti, la specificità di istituzioni e politiche ad essi indirizzate ecc.) emerge un costante interesse a ricostruire la vitalità di logiche produttive e sociali che una superficiale teoria della modernità considera residuali, retaggi del passato ecc.. Non esiste quindi un solo “best way” di organizzare la produzione sociale. E nel gioco delle forze, la contrapposizione autonomia/subordinazione (importante, come si è visto, anche nel filone di ricerca di Gurvitch) assume un ruolo cruciale. Inoltre, la raccolta delle informazioni deve essere coerente con le domande della ricerca. A partire da questi tre punti fermi, i temi da studiare sono infiniti, e la curiosità di Sebastiano era inesauribile.
In due occasioni, una pubblica (in un dibattito su Rinascita) l’altra interna (un appunto per una discussione nel Dipartimento, che si può leggere sul sito della Facoltà) Sebastiano si è pronunciato con forza in favore di un aumento del peso dell’economia applicata negli insegnamenti della Facoltà. A prima vista si potrebbe pensare che la sua vena empirista vi prendesse il sopravvento. E’ in questa sede leggendaria la domanda che Brusco rivolgeva ai suoi studenti del corso di economia applicata : quanti sono i metalmeccanici ? (all’epoca, gli studenti, essendo tenuti a leggere un utilissimo ma soporifero volumetto di Negro, erano posti in grado di rispondere a questa domanda). Certo, era vivo in Brusco il desiderio di sfuggire alle futili astrattezze, ai vuoti formalismi. Ma il suo chiedere una maggiore attenzione ai fatti e alle “chiacchere” della gente era tutt’uno con la ricerca delle basi micro-strutturali dell’autonomia delle persone. Studiando il lavoro a domicilio, l’agricoltura contadina di Modena, la subfornitura, Brusco analizzava minutamente la frammentazione sociale (i lavori atipici dell’epoca) allo scopo di proporre, mediante una riduzione della condizione subalterna, la ricomposizione politica del mondo del lavoro.
Nel primo decennio della Facoltà, al di là dei punti di convergenza che ho ricordato, coesistevano, dal punto di vista della cultura politica, almeno quattro posizioni, alcune non reciprocamente esclusive. La prima e la seconda partivano dalla critica di Garegnani (e Sraffa) al principio di Say, nella sua formulazione antica e moderna, sottolineando l’incapacità di un’economia di mercato di risolvere il problema della domanda effettiva, e quindi della piena occupazione. Vi era a questo punto una biforcazione (e probabilmente anche un’ambiguità). La prima posizione procedeva in direzione dell’appoggio ad un intervento pubblico di tipo keynesiano. La seconda posizione guardava con interesse e favore, invece, alle esperienze di pianificazione sovietica, (prevedendo degli adattamenti alla realtà italiana che tuttavia non vennero mai precisati). Questo interesse era stato all’origine dell’istituzione, da parte di Garegnani, anche su sollecitazione degli Enti locali che avevano contribuito al finanziamento della Facoltà,, di un corso, unico nelle Facoltà di Economia dell’Italia e probabilmente del mondo, chiamato “Scienza della programmazione”. Il docente a cui Garegnani aveva affidato il corso, di formazione economista agrario, dovette trascorrere un periodo di perfezionamento a Londra per convertirsi in esperto di pianificazione sovietica. Lentamente il contenuto di questo corso cambiò fino a diventare un normale corso di economia applicata, e poi scomparve. La terza posizione faceva proprio l’impianto della teoria della modernizzazione, con le relative categorie di “maturità precoce”, e tendeva ad attribuire i bassi salari delle piccole imprese all’assenza di economie di scala e alla bassa produttività delle piccole dimensioni d’impresa. Vi era infine la posizione di Sebastiano che, pur condividendo la posizione keynesiana, aveva tuttavia deciso di puntare l’attenzione sulle micro-logiche strutturali dei rapporti di produzione. Ne era derivata una difesa appassionata della realtà dei distretti, talvolta lievemente romantica ma comunque sorretta da una robusta argomentazione, e da una straordinaria documentazione, raccolta nell’unico modo possibile. Si è soliti definire questa documentazione di “prima mano”, ma per quei temi non c’è un’alternativa di “seconda mano”.
Ho cercato di argomentare che la ricerca di Sebastiano prendeva le mosse da Pigliaru, la cui opera rinvia indirettamente agli scritti di Gurvitch. Quest’ultimo era partito da una riflessione critica dell’esperienza sovietica, contrapponendo in chiave anti-centralista la ricca e articolata realtà di altri ordinamenti giuridici e sociali. Nel 1934, nei Quaderni di Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli pubblicava, sottolineandone l’importanza politica, un breve scritto di Gurvitch (“ I sindacati e l’interesse generale”). Vi si criticava l’idea che lo Stato avrebbe il monopolio nel rappresentare l’ “interesse generale”. Si sosteneva che questa idea “equivale a far subire all’individuo il dominio di un solo ordine invece di lasciarlo liberamente muovere fra più ordini e di permettergli, a tutto vantaggio della sua libertà concreta, di opporre una organizzazione all’altra”. Si concludeva che “l’interesse generale non può essere che un equilibrio mobile di interessi opposti in conflitto, che sono conservati e anche rinforzati da questo equilibrio” (p.33). Non mi risulta che Brusco avesse mai letto Gurvitch. Ma credo che, attraverso modalità di trasmissione indirette, affini a quelli della “conoscenza tacita” dei distretti, un’ispirazione di questo tipo fosse presente nella sua “visione”, e possa aiutare a spiegare, in modo unitario, la specificità della sua ricerca, della sua didattica, del suo impegno politico. Ci ha lasciato una grande perdita, ma anche una grande ricchezza.

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:19:32]