Anna Natali, "La valorizzazione delle risorse ambientali: i saperi e le regole" 1a parte

Lo sviluppo locale in Sebastiano Brusco
Artimino, 9-13 settembre 2002
Questo intervento dà conto di un percorso di idee condiviso con Sebastiano nell’arco di oltre dieci anni, a partire dalla metà degli anni ottanta.
Vi si discute del rapporto fra tutela delle risorse ambientali e sviluppo, e delle condizioni alle quali, nelle aree arretrate, le risorse ambientali possono svolgere un ruolo per lo sviluppo locale.

Non è il solo argomento di cui Sebastiano si sia occupato in materia ambientale. Nel corso degli anni novanta, il suo interesse di studio ha riguardato altri temi: i sistemi e le politiche per la gestione dei rifiuti nello scenario europeo, e, sempre con riferimento a questo settore, il rapporto tra struttura industriale e regolamentazione ambientale, le strategie delle imprese, l’evoluzione dell’assetto dei servizi pubblici locali e i possibili spazi di cooperazione tra operatori pubblici e privati; le determinanti dell’innovazione ambientale in diversi settori industriali.

L’intervento che segue rispetta un ordine logico più che cronologico. Le Note in calce indicano gli studi e gli scritti a cui i punti via via trattati fanno implicito riferimento, insieme alle fonti delle citazioni inserite nel testo.


1.

E’ possibile combinare tutela delle risorse ambientali e sviluppo? E’ possibile che aree ricche di risorse naturali diano luogo a sistemi di attività capaci di produrre occupazione e reddito, e insieme conservazione e tutela delle risorse? Quali sono le difficoltà che una simile prospettiva pone, e quali interventi possono rimuoverle?

A lungo, da parte ambientalista, si è insistito sulla necessità di assicurare la tutela attraverso una rigorosa disciplina del territorio ed una forte azione pubblica volta a far rispettare i vincoli, a contenere, a reprimere. Questa strategia, tuttavia, da sola è assai debole. Combattere i progetti che minacciano l’integrità delle risorse significa aprire infiniti fronti di conflitto. L’intervento pubblico non sempre riesce ad essere pronto e deciso quanto sarebbe auspicabile. Molti danni, di fatto, diventano non evitabili. Si è fatto così strada, nel tempo, un modo diverso di affrontare la questione: la ricerca di soluzioni capaci di dare sbocco compatibile alle istanze di sviluppo delle comunità locali. Il salto è stato rilevante. Ha portato i difensori dell’ambiente a dedicare attenzione a questioni prima trascurate: per esempio, se sia possibile sostenere che un modello di sviluppo basato sulla conservazione delle risorse sia preferibile per ragioni di convenienza economica, oltre che per ragioni di tutela; e se sia possibile, su questa base, pensare a una politica di tutela costruita sul consenso, anziché imposta o guadagnata attraverso la contrapposizione e il conflitto.

In questa direzione si è andati, poi, ancora più avanti. E’ possibile che aree ricche di risorse naturali e culturali, fortemente svantaggiate sul piano sociale ed economico, possano basare il proprio riscatto proprio sulla valorizzazione delle risorse ambientali? Ne deriverebbero effetti assai positivi anche dal punto di vista della tutela. In molte aree marginali, infatti, il patrimonio naturale è tanto ricco, quanto poco o per nulla utilizzato, ed il sottoutilizzo tende a generare abbandono e degrado. La stessa conservazione delle risorse, alla lunga, ne è minacciata. E’ una spirale dalla quale è difficile uscire, se non pensando di ristabilire una connessione positiva tra i beni ambientali, la loro salute e mantenimento, e gli interessi locali.

2.

La discussione sulla convenienza anche economica di una scelta di tutela ha dato luogo, alla fine degli anni ottanta, a una ricerca sul parco nazionale d’Abruzzo che ha avuto, tra gli addetti ai lavori, ampia risonanza. La ricerca, commissionata dal WWF, doveva accertare quanto avesse pagato la politica di conservazione del parco in termini di benessere economico, e come i risultati ottenuti nell’area protetta si collocassero rispetto a quelli ottenuti in aree dalle caratteristiche simili non gestite come parco. Gli esiti furono positivi e incoraggianti. Si trovò che lo sviluppo, tutto legato al turismo del parco nazionale, era stato davvero notevole, senza dubbio non inferiore a quello che altre zone montane della regione, a buona vocazione turistica e non soggette a vincoli, avevano conseguito. Si trovò che a Civitella Alfedena, uno dei centri principali del parco, le presenze turistiche registrate dall’Apt erano in dieci anni quintuplicate, e che il reddito lasciato in paese dai visitatori si poteva stimare nel 1988 non inferiore a 4 miliardi. Lo sviluppo che si era avuto in regime di parco era stato, senza dubbio, di tutto rispetto.

Anche il grande pubblico se ne accorse. Fu quando, nel dicembre 1989, in prima pagina a quattro colonne Il Sole24ore titolò: “nella classifica dei risparmi Civitella ‘straccia’ Milano”, spiegando che ogni cittadino di Civitella risultava disporre di un deposito bancario di 99,7 milioni, ogni famiglia in media quasi 300 milioni. Il calcolo fu in realtà frutto di un errore grossolano, come spiegò di lì a poco un articolo pubblicato su Airone: il Sole aveva diviso l’ammontare dei depositi della locale Cassa rurale e artigiana per il numero di residenti della sola Civitella, quando il bacino di raccolta della banca comprendeva altri quattro comuni. Il ricalcolo corretto dei depositi pro capite dava 16,7 milioni, non i quasi 100 che ‘stracciavano’ Milano. Restò comunque – della ricerca, dell’articolo sul Sole, del dibattito che ne seguì – il punto davvero rilevante: che nel parco d’Abruzzo, ove il direttore aveva a lungo combattuto negli anni sessanta e settanta la speculazione edilizia e l’incontrollata diffusione delle seconde case guadagnandosi l’aperta ostilità delle comunità locali, alla resa dei conti una ragionevole tutela si combinava con un diffuso benessere.

Questo risultato ha segnato il dibattito successivo sul rapporto tra parchi naturali ed economia locale. Il WWF in particolare ne ha fatto, comprensibilmente, un punto di riferimento. Ma l’avere trovato che in un parco, che a lungo era stato al centro di polemiche e conflitti, tutela e sviluppo avevano finito per combinarsi con successo, non era certo un punto di arrivo. Poteva essere giocato - come lo fu - nella discussione sulla creazione di nuove aree protette, riaccesa dall’approvazione nel 1991 della legge quadro nazionale sui parchi. Poteva diventare lo spunto per sostenere che la scelta di tutela non implica necessariamente l’imposizione di sacrifici alle comunità locali, dando forza alle ragioni della conservazione nel dibattito politico. Restava però da porsi, e cercare di rispondere, a una quantità di domande che la stessa analisi del caso Abruzzo spingeva a formulare: che cosa stava alla base del successo di quella esperienza? Che lezioni se ne potevano trarre? E soprattutto: è possibile per altri ambiti intraprendere un percorso simile? A quali condizioni? Al di là della battaglia politica condotta nelle aule parlamentari o nei consigli regionali per difendere la natura e i parchi, erano questi i punti rilevanti su cui riflettere. Si trattava di riconoscere difficoltà, ostacoli, problemi, e chiedersi quali sono gli interventi adeguati per affrontarli.

3.

Nella vicenda che così si è aperta, in cui - nei termini detti - si è riflettuto di ambiente e sviluppo, molto di quello che si è andati pensando ha un forte debito con la più ampia riflessione sullo sviluppo locale. Di fatto, una quantità di sollecitazioni e di spunti si sono travasati da un ambito all’altro. E’ del resto comprensibile, dato il taglio di studio: perché si tratta, qui come là, di cercare dentro la società e l’economia locale le condizioni che permettono a un’organizzazione produttiva di svilupparsi. Certo: nel caso delle risorse naturali protette, l’organizzazione di cui si parla è particolare: mette sul mercato soprattutto servizi e basa parte rilevante della sua capacità produttiva sul modo in cui sono governati e gestiti beni pubblici di cui si occupano istituzioni e non imprese. Ma, nella sostanza, sempre di un’organizzazione produttiva si tratta: in cui molte delle cose che contano, e fanno la differenza tra un sistema di successo ed uno arretrato, sono forse le stesse che fanno la differenza tra aree forti e deboli sullo sfondo di altri scenari produttivi.

Il cuore della riflessione che è venuta maturando si trova, in sostanza, proprio in questo snodo: nel cercare di capire se i temi e i profili di analisi rilevanti, quando si tratta di sollecitare uno sviluppo che usa l’ambiente, non siano sostanzialmente diversi da quelli che risultano rilevanti quando ci si proponga di sollecitare, per esempio, lo sviluppo manifatturiero. E - se così è - che cosa da questa somiglianza si possa e si debba ricavare.

4.

Per cominciare ci si può chiedere se si ponga, qui come là, un forte problema di conoscenze e competenze.

Quando si discute di sviluppo manifatturiero in aree arretrate, l’immissione dall’esterno di conoscenze e competenze che localmente non sono disponibili è il perno intorno al quale ruotano i vari, non alternativi, tipi di soluzioni e iniziative possibili: “quelle giocate sulle connessioni create da una grande impresa che solleciti la crescita di imprese subfornitrici; quelle da realizzarsi sollecitando il decentramento produttivo di aree forti verso aree deboli; quelle giocate nel tentativo di collegare direttamente con il mercato imprese minori che già lavorano, seppure indirettamente, per il mercato nazionale e internazionale.” Ancora, è il ruolo fondamentale riconosciuto alle conoscenze e alle competenze che spinge a ritenere utili le iniziative che puntano a diffondere le informazioni sull’andamento dei mercati, a rafforzare le capacità di progettazione, a sollecitare la partecipazione alle fiere, o a svolgere operazioni anche più sofisticate e complesse come, per esempio, ripensare gli stilemi del folklore locale e riprogettare i prodotti tradizionali, così che possano inserirsi nelle correnti attuali di gusto e di mercato.

Non diversa appare la leva da muovere, quando si tratti di sollecitare lo sviluppo locale in un contesto di parco, e quando le attività di più probabile successo siano quelle connesse col turismo. Anche in questo caso l’esigenza principale che si pone è immettere conoscenze e competenze nuove che localmente non sono disponibili.

Si pensi per esempio alle conoscenze che occorrono per scegliere con consapevolezza il tipo di organizzazione turistica. Sono quelle conoscenze che consentono di distinguere e percepire i motivi di differenza. Quelle che permettono di vedere che “vi è il turismo basato sui grandi alberghi, che rovinano l’ambiente, e che tendono a esportare dalla zona i profitti, e vi è, invece, il turismo delle locande, delle case riadattate, che bene si confanno al paesaggio naturale ed urbano, che diffondono cultura e sollecitano ristrutturazioni successive. Vi è il turismo dei campeggi disperati sotto gli incannicciati, e senza servizi, che inquina e distrugge, e vi è il turismo sotto gli ulivi, disperso e ben servito, che sollecita la crescita civile degli ospiti e degli ospitati. Vi è la promozione turistica gestita in malo modo dalle pro loco, con prenotazioni inattendibili, e che sollecitano le lettere di protesta sui quotidiani, e la promozione garbata ed efficace anche all’estero, rivolta spesso ai tour operators. Vi è, in definitiva, un turismo che distrugge e squalifica, che riduce le migliori spiagge della Sardegna e della Puglia ad una occasione di infezione, ed il turismo che vivifica e costruisce occasioni di incontro e crescita: tutti e due, si badi, turismi di massa, come è forse indispensabile ai livelli di reddito di questo Paese. L’uno, però, foriero di distruzione e sperpero, l’altro, creatore di reddito e di salute.

Di norma, nelle aree arretrate, non si ha percezione del fatto l’organizzazione turistica può essere assai differenziata. Non ne hanno percezione i cittadini, ma nemmeno i comuni, le province, tantomeno le pro loco o le agenzie di soggiorno. Qual è invece il quadro che normalmente si presenta, agli albori dello sviluppo turistico, nel sud o nel sud del nord?

Ciò che davvero accade, è che un paese povero, con la sua cultura, col suo sistema di mediazioni, con la sua incapacità di fare fronte al nuovo, con la sua ansia di aumentare i piccoli redditi familiari, con la sua incapacità di previsione, viene investito da un evento nuovo, di grande portata, sconvolgente. I turisti arrivano in massa; le case si moltiplicano; qualunque imprenditore che venga da lontano e che prometta nuovi posti di lavoro, se non altro nella costruzione dell’albergo, viene accolto come un benefattore; ogni terreno vicino alla spiaggia viene percepito come una miniera d’oro; tutte le regole di buona gestione del territorio vengono vissute come un impedimento ad un aumento di reddito che finalmente è possibile; ogni impianto di risalita che viene proposto – dal più umile geometra dell’amministrazione comunale – viene pensato come un’occasione propizia. E’ tutto del tutto comprensibile: ed occorre riflettere, prima di pronunciare giudizi severi sullo sfascio o sulla cementificazione delle coste o sull’abbattimento dei boschi, ai decenni o ai secoli di isolamento che hanno preceduto l’arrivo dei turisti; allo stupore che luoghi e paesaggi da sempre vissuti come ovvii esercitino un richiamo e chiamino gente da lontano; all’ansia di rivincita e di crescita che chi arriva da lontano – e non conosce i prezzi e i costumi, ed è così facilmente disposto a pagare tariffe assurde – sollecita negli abitanti locali. In questo “stato nascente” dell’industria turistica, qualunque cosa viene avvertita come cosa legittima. Proprio come accadeva nei primi anni del West, o nei primi anni del Klondike.

E’ evidente allora per quali motivi e urgenti necessità si tratti in questi luoghi di aumentare le conoscenze e le competenze disponibili. Le ragioni principali sono due. Una è che - come in altri tipi di contesti - occorre ampliare, talvolta creare, una capacità che sia non solo padronanza delle tecniche di produzione ma anche, a monte, capacità di progettare e, a valle, capacità di rapportarsi col mercato. Solo se queste ulteriori conoscenze sono diffuse è possibile che forze imprenditoriali vengano alla luce, nuove iniziative si formino, e il tessuto produttivo locale assuma via via maggiore consistenza. L’altra ragione è che occorre creare quei presupposti che “permettano di affrontare problemi diversi da quelli soliti, per scegliere e governare ciò che accade con consapevolezza e coscienza”. La rilevanza delle conoscenze si misura anche sotto questo profilo: non solo le imprese sono in gioco, con le loro difficoltà a stare sul mercato, ma anche le comunità e le amministrazioni locali, con la loro impreparazione a governare il cambiamento.

5.

Sulla scorta di questi elementi è facile vedere quanto la politica dei vincoli, dell’imposizione dall’alto delle regole di protezione, o talvolta della repressione, sia drammaticamente insufficiente. Non hanno peso solo ragioni di scarsa efficacia. Ben più conta il fatto che moltissimi territori pongono un problema di diffusione di conoscenze, di formazione, di educazione e persuasione. Il ruolo dell’istituzione di tutela ne risulta profondamente ridisegnato, perché “occorre autorevolezza ed egemonia e non autorità, ed una competenza che solleciti la crescita di consapevolezza invece che una autorità come difensore dei vincoli.

Le attività, le funzioni, il ruolo istituzionale del parco sono investiti in pieno dalle considerazioni che questo modo di vedere sollecita. E’ certo necessario che il parco continui a difendere le istanze di tutela. Ma è anche importante che sia in grado di comprendere e misurarsi con le richieste locali di sviluppo.

Tradizionalmente i parchi si sono occupati delle richieste locali, andando alla ricerca di accettabili compromessi. Di volta in volta si sono chiesti: date le proposte avanzate e i valori ambientali in gioco, cosa conviene di quelle proposte accettare, cosa modificare o respingere? Ma i territori e le collettività locali trarrebbero vantaggio da un esercizio ben più fine di critica e una maggiore capacità di proposta, applicati al merito delle idee in discussione: quali risultati ci si propone di conseguire? quanto rilevanti? quali alternative sono praticabili?

E’ certo necessaria, a questo scopo, una capacità di analisi che permetta il formarsi di una consapevole visione dei problemi. Sono molti i casi in cui questo sarebbe importante. Le proposte locali non di rado sono ingenue, non realizzabili nel contesto locale, talvolta non sostenibili economicamente prima ancora che sul piano ambientale: dichiararle non compatibili è meno utile ed efficace di quanto sia saggiarne la consistenza e mostrarne le debolezze. Alcune iniziative sono sostenute da piccoli, ristretti gruppi locali, o per altro verso da forti interessi esterni, lasciando prevedere, in un caso e nell’altro, benefici di ben scarso rilievo per l’insieme della comunità interessata: metterne a fuoco le reali ricadute sociali ed economiche aiuta a giudicarle, dà spazio a un confronto più informato, spinge alla ricerca di alternative. Una maggiore capacità di analisi, in sostanza, è in grado di produrre spesso un doppio beneficio: per un verso la creazione di condizioni di consenso più favorevoli alla tutela, e per un altro la selezione e l’identificazione di progetti credibili.

Questa prospettiva invita ad assicurare l’integrità delle risorse giocando un ruolo attivo, di ricerca di soluzioni e di proposta, più che difensivo. Ed è opportuno ricordare, per inciso, che un simile approccio non è estraneo all’elaborazione alta sui parchi e sul loro ruolo istituzionale da parte degli stessi naturalisti. Negli anni settanta Valerio Giacomini, una delle voci più autorevoli tra gli studiosi italiani di ecologia, sosteneva un modello di “parco-laboratorio” che fosse “non più un discorso di margini, di resti di territorio, di isole da proteggere”, ma “la linfa di una nuova etica di amministrazione di tutta la risorsa territoriale” in cui “attuare un controllo sperimentale permanente dei rapporti effettivi tra sviluppo e conservazione”, e “aprire un colloquio, un confronto, realizzare una valida informazione e partecipazione”.

Cose dette, queste, sullo sfondo di pesanti conflitti tra comunità locali ed enti parco, in cui molti difensori della natura sposavano la linea dell’intransigenza. L’indicazione di Giacomini andava in tutt’altra direzione: verso l’apertura alle ragioni locali e lo sviluppo di un confronto informato con le comunità; quando necessario, verso uno speciale sforzo di comunicazione e di educazione. Perché è chiaro che cosa accade quando queste vengono trascurate: “si lascia libero campo all’intervento di ben altre informazioni e persuasioni: quelle degli speculatori avidi e occhiuti, che sono prodighi di promesse fondate su quel potere che il denaro esercita purtroppo nella povertà e sul bisogno”.

Come nel “Klondike” sono le implicazioni politiche della conoscenza ad essere messe in primo piano: il nesso stretto tra competenze e capacità di giudicare e di scegliere. Le implicazioni economiche della conoscenza, quelle che permettono di percepire le opportunità di profitto e sono così importanti perché un sistema locale possa svilupparsi, non erano invece ancora a fuoco nella riflessione di quegli anni.

La pratica istituzionale, comunque, è rimasta indietro su un versante e sull’altro. Ben poco si è realizzato, negli anni, del parco-laboratorio e della sua missione sperimentale ed educativa; ben poco del parco “agente di sviluppo”. L’impegno degli enti parco ha continuato a concentrarsi principalmente nell’azione di difesa. Le amministrazioni centrali e le regioni non hanno assunto iniziative che fossero, nella direzione indicata, di guida e di stimolo. In tempi relativamente recenti, a seguito della legge quadro del 1991, si è aperta una nuova stagione di pianificazione all’interno delle aree protette: sono stati messi in cantiere i piani territoriali e, da pochissimo, anche i piani pluriennali di sviluppo. Questo sforzo darà forse qualche risultato, se sarà occasione per riflettere criticamente su indirizzi e strategie. Nell’insieme, resta un punto: le istituzioni di tutela appaiono tuttora culturalmente lontane dall’idea di dare corso a una nuova “etica di amministrazione”, o, più semplicemente, di dotarsi di efficaci strumenti di analisi e di progetto per la valorizzazione delle risorse.

6.

In Europa il quadro è assai più mosso e differenziato, e ricco di spunti di interesse. In Francia, per esempio, i parchi regionali sono stati creati con la doppia missione di proteggere le risorse naturali e il paesaggio, e di tutelare e rilanciare le tradizioni produttive e le identità culturali locali. Le attività umane tradizionali hanno un ruolo importante nel conservare l’assetto e l’immagine di luoghi segnati dalla storia e dagli usi: perché la tutela abbia successo, si cerca così in ogni modo di inventare e progettare modi nuovi di condurre e di esercitare le produzioni e i mestieri tradizionali, gestire le fattorie, rivisitare i costumi e le consuetudini. Ne riceve slancio la produzione agricola e artigiana, e una fruizione turistica che combina il godimento della natura con l’interesse per la vita materiale.

Questa strategia prevede un forte coinvolgimento delle comunità. I progetti sono identificati attraverso un’attività di animazione e di partecipazione. I leader locali sono consultati e resi protagonisti. Ogni parco, avvalendosi dell’aiuto degli altri parchi e della federazione nazionale, fornisce le competenze qualificate e rare che il sistema locale non possiede, necessarie per definire la strategia di offerta, vendere il prodotto, curare la comunicazione. C’è insomma molto da imparare, e molto da cui trarre ispirazione, per tutti i contesti locali nei quali si dà un intreccio specifico di natura e cultura, e la conservazione delle risorse ambientali si sposa col mantenimento di alcune tradizioni.

Ma in Europa c’è anche altro. Per esempio si trova, in Germania, che vicino a grandi città, o nel perimetro di aree densamente urbanizzate, dove la domanda di natura e di verde per la ricreazione e il tempo libero si fa sempre più intensa, sono istituiti parchi naturali che si preoccupano di recuperare aree, rinaturalizzare corsi d’acqua, attrezzare spazi, progettare percorsi, offrire servizi. L’attività di conservazione e protezione si ridisegna e modella per fornire risposta alle esigenze dei residenti. Anche da queste esperienze c’è molto da imparare e molto da cui trarre ispirazione: questa volta, per quei contesti urbani, industrializzati, ad alto tasso di sviluppo, nei quali la natura protetta è già diventata o sta diventando parte integrante della dotazione di infrastrutture e servizi da cui dipende la qualità della vita.

Che cosa ricavare, nell’insieme, da questi esempi? In primo luogo, che la tutela può essere pensata non solo come la preoccupazione e l’attività di un’istituzione “lontana” dal livello locale, che la propugna in nome di un interesse pubblico generale, ma anche come l’impegno e il lavoro di un’istituzione invece assai vicina, sensibile ai problemi che attraversano il livello locale, e permeabile alle esigenze che vi emergono al punto da farsene direttamente influenzare. Preservare il patrimonio naturale a beneficio delle generazioni future, non esclude ma implica l’attenzione al ruolo che il patrimonio può giocare a favore della generazione attuale.

Un secondo punto poi mostrano con evidenza: che la disomogeneità del territorio e dei suoi bisogni dirige verso le risorse ambientali una domanda sociale diversa e variegata. In alcuni casi la priorità è aumentare il reddito, creare occupazione, rilanciare l’economia; in altri, migliorare la dotazione di servizi per chi vive e lavora nell’area. Il punto d’incontro tra le ragioni della conservazione e il consenso locale varia da luogo a luogo, mettendo in gioco temi diversi. Le risorse naturali svolgono, o possono svolgere, un ruolo rilevante per la società locale; e poiché questo ruolo non è lo stesso ovunque, le istituzioni che se ne occupano sono indotte a cambiare, volta a volta, obiettivi operativi, stili di comportamento, modelli di azione. Parchi diversi, insomma, hanno ruoli diversi. Ed è del tutto ragionevole che sia così.

7.

La mappa dei rapporti, variegati e diversi, tra risorse naturali e società ed economia locale, contempla anche altri casi. Si è detto del caso delle aree arretrate, dove il patrimonio ambientale può essere la base per promuovere una nuova economia, principalmente basata sul turismo, a condizione che vengano immesse le conoscenze e le competenze necessarie per progettare l’uso delle risorse. Si è detto del caso di aree sviluppate in cui la natura residua può contribuire a elevare la qualità della vita, a condizione che siano scelte forme di gestione appropriate e si offra un adeguato insieme di servizi.

Accanto a questi, ci sono casi di altri contesti sviluppati nei quali la qualità del patrimonio ambientale e del paesaggio appare profondamente legata col modello di sviluppo che ha assicurato condizioni di benessere. Così accade, per esempio, in quelle zone ad alta specializzazione agricola che nel tempo hanno sviluppato intorno alle coltivazioni una ricca filiera di attività commerciali e manifatturiere, e nelle quali, al tempo stesso, il processo di industrializzazione è stato arginato e frenato per non intaccare l’assetto ambientale coerente con la vocazione produttiva originaria (ne è buon esempio, in Emilia, l’area di Vignola: specializzata nella produzione della ciliegia e nel commercio della frutta, si è sottratta sin dagli anni sessanta all’espansione delle ceramiche dal vicino distretto di Sassuolo).

In casi come questi, la conservazione della qualità ambientale appare strettamente connessa al modo nel quale il territorio affronta, e risolve, i suoi punti di crisi. O a come reagisce e risponde a quelle “chiamate” forti a compiere una scelta consapevole tra opzioni dalle quali tendono a derivare sviluppi futuri divergenti. I punti di crisi - che nascono da tensioni, insoddisfazioni, o la percezione di squilibri da correggere - possono far emergere problemi direttamente relativi alla gestione delle risorse ambientali, o mettere in discussione altri aspetti: per esempio, il rapporto che nell’area si realizza tra posti di lavoro e occupati; l’intensità del pendolarismo verso altre aree; il rapporto tra posti di lavoro nell’industria e nel terziario. Questioni di cui comunque è facile vedere le ripercussioni sotto il profilo territoriale e ambientale.

In questi luoghi, in sostanza, dato il rapporto stretto che storicamente si è stabilito tra le risorse ambientali e il modello di sviluppo, i punti di crisi che si aprono negli equilibri locali sono in grado di generare profondi cambiamenti nell’uso e nella gestione delle risorse. Ed è appena il caso di sottolineare come, in casi come questi, occuparsi delle relazioni territoriali in cui l’area è inserita, delle vicende storiche in cui è coinvolta, e delle spinte al cambiamento nella società locale, sia un modo appropriato, e forse il più efficace, per occuparsi di ambiente e di tutela delle risorse.

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:20:52]



Sebastiano Brusco - Anna Natali, "La valorizzazione delle risorse ambientali: i saperi e le regole" 2a parte

8.

Molti argomenti si possono quindi portare a favore di uno spostamento di attenzione verso il territorio e le condizioni che caratterizzano ciascun ambito locale. I livelli di reddito, la cultura, i bisogni prevalenti, le tensioni e le spinte al cambiamento, luogo per luogo influenzano il rapporto tra le comunità e le risorse ambientali di cui esse dispongono. Questi motivi rafforzano l’idea che le istituzioni di tutela debbano dotarsi di capacità di analisi e di progetto, e rendono più forte la percezione delle carenze che ne segnano l’operare.

Ma forse troppo si è detto, sinora, degli enti parco, e troppo poco dell’insieme delle istituzioni locali e delle amministrazioni pubbliche di cui gli enti parco fanno parte, e al quale sono accomunati da alcuni diffusi approcci e orientamenti. Tra questi, uno dei più importanti riguarda quali azioni si ritenga corretto o utile privilegiare, quando si interviene su un ambito locale a fini di sviluppo. Il punto è ovviamente di interesse molto ampio, e non tocca certamente solo il tema qui in discussione.

Un modello dalla presa assai forte, trasversale alle istituzioni pubbliche e geograficamente diffuso, senza che si osservino forti disomogeneità tra regioni del nord e del sud, è quello che tende a identificare l’intervento pubblico con l’opera pubblica. Il “male della pietra”, lo si potrebbe definire.

Colpisce ovunque, e ovunque fa sì che gli investimenti davvero consistenti, insieme al giudizio su quali siano gli investimenti che contano, favoriscano azioni fisiche e interventi materiali: costruzioni, recuperi, opere di urbanizzazione, infrastrutture. L’adesione al modello è talmente compatta e omogenea, che il suo allentamento è forse possibile solo nei tempi lunghi del cambiamento culturale; e, anche in questo caso, forse solo a condizione che si dia adeguato spazio alla formazione: come potrebbe fare, per esempio, una scuola per “agenti di sviluppo” che siano poi inseriti capillarmente nelle Regioni e nei Comuni, e diventino “portatori di una cultura di sviluppo locale diversa da quella tradizionale, che faccia perno più sul saper fare e sullo studio delle opportunità praticabili che su puri e semplici investimenti in capitale fisso.

Il male della pietra – o la tendenza a privilegiare le realizzazioni materiali – incide sul livello locale in vari modi. Tre effetti vale la pena citare: (a) gran parte dei finanziamenti disponibili vengono destinati a coprire il costo elevato delle opere, e spesso ben poco resta per azioni immateriali di sostegno; (b) gli enti locali sono indotti a stabilire tra loro un gioco non di cooperazione ma di competizione (strutture e infrastrutture devono trovare localizzazione, ed ogni ente preme perché avvenga nel proprio territorio; comportamento che, con le debite eccezioni - vedi discariche e inceneritori -, vale per un ampio insieme di opere “funzionali allo sviluppo”); (c) la decisione di investire è assunta dando maggior peso ai benefici, limitati e temporanei ma vicini nel tempo, della fase di cantiere, che a quelli potenzialmente ben più rilevanti connessi col funzionamento e la gestione (con parallela sottovalutazione, o completa ignoranza, dei problemi che alla fase di gestione sono legati).

Questi effetti non sono desiderabili. Le azioni immateriali sono necessarie, spesso essenziali a fini di sviluppo, soprattutto nelle aree arretrate che più hanno bisogno di sostegno. La cooperazione tra le amministrazioni e le comunità locali va sollecitata e non scoraggiata, non in ultimo per l’esigenza di evitare che le risorse finanziarie si disperdano su una miriade di interventi di scarso rilievo. Le condizioni di efficienza della gestione, e i risultati che dalla gestione si possono ottenere, dovrebbero avere peso nel formare la scelta se investire o meno, e nel suggerire le modalità nelle quali l’investimento va realizzato.

I programmi di investimento che interessano le aree protette non sono immuni dal rischio di incorrere nei limiti e nelle distorsioni dell’ottica “da opera pubblica”. Gli interventi materiali che vi possono trovare realizzazione, nel rispetto della disciplina di tutela e in coerenza con la vocazione turistica delle aree, sono numerosi: miglioramento della viabilità e degli accessi, realizzazione di sentieri, recupero e ristrutturazione di case, costruzione di ostelli o di piccoli alberghi nelle aree limitrofe, e così via. La gamma delle opere possibili è assai ampia.

Il rischio si materializza quando questa gamma tende a coincidere con tutto l’intervento pubblico rivolto all’area. Quando enti parco ed enti locali si occupano soltanto di costruire ostelli, o recuperare edifici o ristrutturare rifugi. E questo è un caso purtroppo frequente. I motivi sono legati, come si è detto, a un approccio culturale assai diffuso nella pubblica amministrazione. Ma anche altre ragioni vi contribuiscono, legate alle procedure amministrative e alle esigenze di spesa. Accade per esempio che l’intervento materiale, mediamente più costoso, sia gradito all’amministrazione che finanzia, perché consente di accelerare una spesa che va spesso a rilento, è alla base del formarsi di residui passivi (problema diffuso tra i parchi nazionali), e se non assume un ritmo più sostenuto rischia di incappare, se si opera al sud, nella tagliola del disimpegno comunitario, che significa perdita di risorse finanziarie già assegnate. I progetti “pronti”, per lo stesso motivo, sono ancora più graditi, perché la disponibilità di un progetto esecutivo consente di aprire il cantiere, e dare avvio alle erogazioni, in tempi più ravvicinati.

Talvolta i criteri di efficienza della spesa non solo contribuiscono alla scelta degli interventi da finanziare (come è ragionevole che sia, affinché qualcosa si cominci a fare in attesa che i maturino i progetti ancora allo stadio di idee), ma esercitano un’influenza ben più diretta sui meccanismi di selezione; col risultato (poco ragionevole, questa volta) che il programma di investimenti prende forma rastrellando dai Comuni i progetti genericamente coerenti e non troppo datati che gli uffici tecnici hanno preparato per precedenti occasioni di finanziamento: nella massima parte, rifacimenti di piazze e di marciapiedi, parcheggi, arredi urbani, restauri di chiese e castelli.

Che relazione ha tutto questo con quella immissione di conoscenze e competenze nella società locale, tra gli operatori economici, che sola permette nelle aree deboli di maturare la percezione delle opportunità di profitto? Quale relazione con la rottura dell’isolamento locale, o il rafforzamento dei rapporti con l’esterno? Quale relazione con la sollecitazione di legami di cooperazione, per quanto fragili ed embrionali, capaci di sostenere un’offerta coordinata di beni e servizi? Rispondere non è agevole. Non sono evidenti i punti di contatto tra quello che il pubblico realizza e quello che sarebbe sensato fare. Lo scollamento tra le due cose è, in molti luoghi, preoccupante.


9.

Che cosa significa, più precisamente, fare perno sul saper fare e sullo studio delle opportunità praticabili? Se una scuola per agenti di sviluppo fosse effettivamente creata, allo scopo di combattere il “male della pietra” della pubblica amministrazione, che cosa dovrebbe insegnare? In che modo questo insegnamento sarebbe di guida e di aiuto nelle aree che puntano a legare tutela della natura e sviluppo?

Ricondurre la discussione sui distretti industriali e sullo sviluppo locale a pochi punti elementari è un’operazione complicata e insidiosa. Ma nei limiti dichiarati di una schematizzazione molto forte, e avvalendosi di un misto di coraggio e avventatezza – per così dire, di “garibaldineria” – ci si può provare. E’ forse possibile sostenere, allora, che in quella discussione sono due gli assi intorno ai quali molti ragionamenti finiscono per raccogliersi: uno relativo ai saperi, le conoscenze, le competenze; ed uno relativo all’idea di concorrenza e cooperazione, o, più in generale, alle relazioni sociali che legano le imprese tra loro, le istituzioni tra loro, le istituzioni con le imprese.

Questi due assi appaiono rilevanti non solo per i distretti, o per quei casi specifici di sviluppo locale che sono così identificati, ma per qualsiasi tessuto locale: per i distretti, per le aree manifatturiere che distretti non sono, per le aree agricole, per quelle pastorali. La lezione che dallo studio dei distretti è possibile ricavare, può illuminare una varietà più ampia di situazioni, sino a stabilire punti di riferimento rilevanti per progettare l’intervento di sviluppo in ogni ambito locale.

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Circa i saperi e le conoscenze, già si è detto del motivo principale per cui sono considerati importanti: da essi dipende la capacità di osservare l’occasione di profitto, di vedere che un investimento si può fare e che è utile farlo: ciò che si può considerare la radice stessa dell’imprenditorialità.

Ma anche un altro punto si può aggiungere, ad amplificare il rilievo delle conoscenze: i saperi sono tanti, e i territori ne sono pieni. Si tratta di saperi locali, specifici, situati; talvolta in movimento nella scia di una vivace dinamica economica, talvolta bloccati nel solco di tradizioni quasi esaurite; in alcuni casi visibili, in altri nascosti. La varietà di questo patrimonio di competenze locali è assai ampia: “esistono i saperi dei vignaioli, i saperi degli uomini di Carpi che sanno fare le maglie, ma anche il sapere del metalmeccanico emiliano che sa come trattare la metalmeccanica o il sapere del bracciante pugliese o il sapere del pastore sardo che fa il pecorino”. Ciascuno di questi è un saper fare, o un sapersi misurare con un’attività, ma anche una risorsa condivisa. Ed è proprio sulla condivisione, o sulla massa critica di un saper fare che coinvolge molti, che appare risiedere il punto cruciale. I saperi che in un certo ambito locale siano diffusi, statisticamente probabili, sono anche usabili a fini di sviluppo. Come dire che conta assai più l’intensità con la quale un luogo esprime una qualunque competenza e capacità, che il tipo di competenza in gioco: una dotazione consistente di abilità specifiche rappresenta di per sé una risorsa, e permette di progettare in modo mirato e tendenzialmente più incisivo l’intervento di sostegno; la presenza di un forte nucleo di esperienza condivisa si associa, sul piano delle relazioni locali, a scambi più intensi, circolazione delle informazioni, apprendimento reciproco: condizioni che favoriscono e sono in grado di amplificare gli effetti positivi di ogni iniziativa diretta a rafforzare le capacità locali.

Riconoscere il ruolo che possono svolgere le conoscenze e le competenze che si sono sedimentate nella storia e nella vita materiale dei luoghi, spinge a guardare al territorio anche più svantaggiato con fiducia e profondità di analisi. Non c’è ragione reale, se non inutile superficialità, per esprimere scetticismo e cinismo sulle condizioni delle aree arretrate: non prima di aver guardato con attenzione, aver censito le risorse, e aver studiato, appunto, le opportunità praticabili. Tra le quali rientrano, per chi non si fermi alla superficie, quelle date dalla presenza diffusa di competenze nascoste: quelle a cui il mercato riconosce un valore modesto, o che addirittura valore di mercato non hanno.

Tipicamente è il sapere delle donne quello che ricade in quest’ultima categoria: il saper fare da mangiare, per dire la cosa più ovvia, e altre professionalità e capacità che restano spesso “invisibili”. Ma non è raro, già è accaduto, che proprio questo sapere nascosto assuma un ruolo importante in luoghi marginali, nelle prime fasi di crescita turistica. Il successo di Civitella, il piccolo paese del parco d’Abruzzo di cui già si è già parlato, può essere spiegato anche così.

In questi anni Civitella ha vissuto una storia a un tempo singolare e banale. Negli anni Cinquanta e Sessanta vi è stata una fortissima emigrazione: la popolazione è passata da 600 a 300 abitanti. L’agricoltura è stata abbandonata, ma non sono arrivate nuove attività manifatturiere a sostituirle. Si è sviluppato, invece, il turismo; esso è stato stimolato dall’Ente Parco, il quale ha promosso l’immagine dell’orsetto seduto. E questa volta le competenze per cogliere le nuove opportunità c’erano. Perché erano le competenze necessarie a tenere in ordine la casa, a fare le provviste, a programmare le pulizie, a fare da mangiare: tutte professionalità vere quanto quelle dell’operaio metalmeccanico, ma non visibili se si assume che questi sono compiti “da donna”, e quindi senza prezzo né valore. Il turismo ha dato dei prezzi di mercato a capacità che non ne avevano, e ha consentito a quelle professionalità “invisibili” di diventare produttrici di reddito. La gran parte delle attività commerciali legate al turismo, infatti, è gestita dalle donne di Civitella. Le sollecitazioni che provenivano dal Parco, dalle discussioni sul ruolo dell’ambiente, dalle chiacchiere in famiglia e in paese hanno fatto sì che questo sviluppo avvenisse in un quadro di crescita culturale e ambientale”.

In altri casi, le opportunità si sono manifestate col riemergere di competenze latenti “dal passato”: come è accaduto in Trentino negli anni ottanta, quando numerosi operai espulsi dall’industria, che avevano fatto i contadini prima di entrare in fabbrica, hanno reinvestito il loro antico saper fare in nuove cooperative di manutenzione ambientale promosse da un progetto speciale dell’Agenzia del lavoro.

Quegli uomini di oltre 50 anni e quelle donne di oltre 45 ai quali è stato dedicato il progetto venivano da anni di lavoro in fabbrica, ma il più delle volte la fabbrica non era la loro esperienza lavorativa preminente. In Trentino l'industria è cresciuta solo negli anni 60, così molte persone anziane nel 1985 avevano alle spalle una esperienza di lavoro maggiore come contadini o come operai di campagna che come operai metalmeccanici o tessili. Quando l'Agenzia del lavoro si è inventata il Progetto speciale ha rimesso in circolo un loro sapere precedente, tutt'altro che dimenticato, su come si sistema un giardino, si costruisce un muretto, si mette in ordine un campo o un prato. Il dirigente che ha creato il Progetto è consapevole di questo punto. Coloro che via via formavano le squadre di lavoro delle cooperative, sotto la guida dei giovani tecnici della Provincia, spesso non stavano improvvisando nulla, ma stavano tornando al loro antico mestiere. Anche questo ha contribuito al successo dell'iniziativa.

Qualcuno potrebbe pensare che queste considerazioni rispecchino un approccio minimalista, di interesse circoscritto, adatto a piccoli paesi di montagna dalle poche centinaia di anime, ma del tutto inadeguato a dare un contributo “vero” alla soluzione del problema dello sviluppo di grandi aree arretrate: per esempio, di un’area grande quanto il parco nazionale del Pollino, o il parco nazionale del Gennargentu, o il parco nazionale del Cilento, tutti estesi decine di migliaia di ettari e in grado di influenzare un ambito ancora più grande. In casi come questi - quel qualcuno potrebbe dire - occorre ben altro per fare sviluppo: la realizzazione di nuove infrastrutture, in primo luogo per facilitare gli accessi e i trasporti; il rafforzamento della rete dei servizi pubblici e privati; l’ingresso di capitale esterno; la realizzazione di impianti turistici; l’azione di tour operators importanti, capaci di commercializzare il prodotto locale sui segmenti giusti del mercato; e così via. Tutto questo ha ovviamente senso (benché punto per punto si dovrebbe verificare, rispetto al contesto locale specifico, quanto ognuna di queste ipotesi sarebbe davvero auspicabile). E infatti il punto in discussione non riguarda il contenuto di queste proposte, ma l’idea che queste proposte rappresentino una alternativa. O, altrimenti detto, l’idea che discutere di saperi locali sia un esercizio minimalista e di scarso peso, perché invece c’è da fare altro.

Il problema è tutto in questo “invece”. Se si mettono le cose in questo modo, il quadro si distorce e non è più comprensibile. Perché sostenere che le conoscenze diffuse in un luogo possano essere il punto di avvio di un processo di sviluppo, non significa in alcun modo sostenere che altri interventi siano da escludere, o che la mobilitazione delle conoscenze “basti a se stessa”. In particolare, non significa considerare inutili gli interventi infrastrutturali (quando siano ben progettati), né pensare che tutto quanto serve allo sviluppo sia già, in qualche modo, “autocontenuto” nel territorio in questione. Le stesse strategie di intervento che fanno perno in primo luogo sulle competenze, prevedono che più forti legami vengano stabiliti o promossi con competenze esterne, che nell’ambito locale sono assenti; e che le conoscenze locali siano sollecitate a mescolarsi e combinarsi con queste competenze, per riuscire a svolgere un ruolo significativo. Non c’è, insomma, alcun pregiudizio autarchico e nessuna ansia di perorare l’autosufficienza dei territori.

Ciò che invece l’enfasi sui saperi vuole mettere in evidenza, è una cosa diversa e in fondo molto semplice, purché si assuma la prospettiva giusta: che si farebbe bene a verificare il senso e la rilevanza di ognuna delle iniziative possibili e potenzialmente utili – nella loro vasta gamma, di cui quelle sopra citate sono solo un esempio – alla luce della loro capacità di entrare in relazione con le competenze presenti nella comunità locale. Che equivale a dire, se si assume il punto di vista contrario, che si farebbe bene a verificare quanto le comunità locali siano in grado (o siano poste in grado) di cogliere le opportunità legate alla loro attuazione, dando luogo a una qualche catena di reazioni positive. Se questa verifica dovesse dare esiti deludenti, qualcosa dovrebbe essere cambiato. Perché è certo che lo sviluppo locale non si fa, senza che le comunità locali vi abbiano un ruolo.

11.

Si è sostenuto, al punto precedente, che i saperi diffusi e la loro capacità di rinnovarsi (col supporto delle varie iniziative possibili allo scopo: dalla formazione ai gemellaggi, all’avvio di esperienze pioniere) sono in grado di giocare un ruolo importante per ridurre l’arretratezza di un territorio. Ma il “secondo asse” che emerge dalla lezione sui distretti – l’importanza delle relazioni sociali, del modo nel quale soggetti e istituzioni interagiscono tra loro – suggerisce che le opportunità praticabili a fini di sviluppo sono influenzate da altri elementi. Un ruolo è svolto anche dai codici di comportamento che orientano, nel contesto locale, gli individui, le famiglie, le imprese, le amministrazioni; le norme e le regole non scritte che hanno valore all’interno della società locale.

Gli studi sui distretti hanno insegnato a riconoscere e insieme ad apprezzare il valore positivo dei codici di comportamento che in quei sistemi locali sono diffusi. Le regole che vi hanno corso contribuiscono in modo determinante al loro successo. In questa direzione spingono a pensare le discussioni sul combinarsi di concorrenza e cooperazione nei rapporti tra le imprese, la commistione tra conflitto e cooperazione attiva nei rapporti di lavoro, il ruolo della fiducia nell’abbattere i costi di transazione, il ruolo dei valori localmente condivisi nel creare una “atmosfera” favorevole allo sviluppo. Le relazioni sociali tipiche del sistema locale, i meccanismi che ne assicurano la coesione e contribuiscono a definirne l’identità, sono relazioni e meccanismi il cui ruolo è rilevante e positivo.

Ma non sempre le regole non scritte sulle quali i rapporti locali si reggono creano condizioni positive: vi sono luoghi nei quali si rivelano di scarso aiuto, o pongono difficoltà e ostacoli. Se ne può trovare indizio in una varietà di atteggiamenti e stili di comportamento: per esempio, quando gli operatori economici mettono il loro impegno nel cercare rapporti privilegiati col ceto politico che intermedia il finanziamento pubblico, più che nel cercare spazio sul mercato; o quando i giovani progettano il proprio futuro facendo conto sull’appoggio di persone influenti e non sull’acquisizione di competenze e sulla crescita professionale; o quando le imprese operano isolate, rendendo improbabile l’emergere di un qualche funzionamento di sistema. Le regole che orientano il comportamento di individui e istituzioni, e tengono insieme le varie componenti della società locale, possono creare barriere alla mobilitazione delle risorse e delle capacità.

Il caso del parco nazionale del Gennargentu può esemplificare con una certa efficacia uno scenario di questo tipo. In quest’area, il progetto statale di creare un grande parco nazionale risale agli anni sessanta e subito si scontra con una forte ostilità da parte delle comunità locali, che vi leggono minacce di espropriazione, perdita del controllo del territorio, asservimento a interessi esterni. Il conflitto blocca l’iniziativa dello Stato e impedisce che si discuta costruttivamente di parco durante i due decenni successivi. Nel 1991 il Parlamento, con la legge quadro sui parchi, include il Gennargentu tra le grande aree protette di interesse nazionale da istituire, e negli anni successivi la discussione riprende; questa volta, su iniziativa della Regione e con il diretto coinvolgimento delle amministrazioni locali. Su incarico della Provincia gli studi sono aggiornati, le proposte di piano riformulate. Il piano di interventi per lo sviluppo prevede che si allarghi l’offerta di turismo verde e si sostenga la nascita di nuove imprese, investendo nella formazione, nelle strutture di fruizione, nella commercializzazione. Il coinvolgimento delle comunità e il coordinamento tra le amministrazioni locali è la via attraverso la quale si prevede di decidere in dettaglio il piano degli investimenti e delle iniziative. L’opposizione locale, mai del tutto sopita, torna però a riaccendersi bloccando di nuovo il processo di costituzione del parco.

Che cosa ha impedito alle comunità del Gennargentu di aderire alla proposta di promuovere le capacità imprenditoriali in un quadro di partecipazione e consenso? Che cosa le ha spinte a opporre un nuovo rifiuto?

La “storia lunga” dell’area è probabilmente il primo orizzonte in cui ha senso cercare una risposta. Perché il Gennargentu non è un posto qualunque in Sardegna: è l’area delle Barbagie, il territorio interno rimasto estraneo alle colonizzazioni costiere, segnato culturalmente dall’orgoglio della diversità, in cui hanno dominato a lungo le leggi non scritte e gli istituti giuridici di un mondo pastorale autoregolato e assai poco permeabile. Il rifiuto di una proposta sensata, che si sarebbe potuta giocare in molti modi, ha forse la sua radice più profonda nella difficoltà di stabilire un rapporto non conflittuale con il volere di un’autorità esterna, sia essa incarnata nello Stato centrale o nella Regione.

Ma se questa può essere una traccia di spiegazione, ve n’è almeno un’altra che può essere evocata. Quando il piano del parco era in discussione, era diffusa tra le amministrazioni locali l’opinione che solo adeguate contropartite in termini di posti di lavoro potessero “comprare” il consenso locale. Per chi conosca la storia recente del Gennargentu, è possibile collegare questo modo di porre la questione con quanto le comunità locali avevano appreso nel gestire il rapporto con la Regione e l’Azienda delle Foreste Demaniali. In quel caso, si era giunti a una sorta di patto di non belligeranza sulla base di un principio di compensazione: l’Azienda offriva trenta posti di lavoro ogni mille ettari presi in gestione (e sottratti al pascolo). Nella discussione relativa al parco veniva riproposto, in sostanza, lo stesso schema. Il parco – dicevano i sindaci – è un altro ente a cui la nostra gente è disponibile a “cedere” territorio, ma al prezzo di parecchie decine di salariati.

Nella cornice di relazioni così regolata, e appresa a considerare praticabile, le proposte del piano di sviluppo sono cadute in un sostanziale disinteresse. Poco è servito spiegare che il parco poteva essa giocato come un’occasione per sollecitare l’economia locale, creare opportunità per i giovani, far crescere nuove iniziative imprenditoriali. Poco è contato prefigurare un processo di sviluppo basato sul protagonismo degli enti locali. E’ stato come parlare un’altra lingua. L’azione considerata appropriata, congruente, era replicare il modello dell’Azienda Foreste. Del resto ci si può chiedere: quanto spazio di consenso poteva avere la costruzione (graduale, impegnativa) di una nuova economia, in un contesto di esperienza dove per aumentare i redditi era stato sufficiente scambiare terra contro lavoro?

Il Gennargentu non ha tratto vantaggio dal prevalere di queste aspettative: i finanziamenti per assumere centinaia di salariati non potevano essere assicurati dall’ente parco nazionale; l’opposizione è valsa solo ad arrestare l’evoluzione locale, rinviare la scelta e spostare in avanti anche i benefici possibili.

Al di là del caso particolare, quello che interessa qui sottolineare è quanto un sistema di relazioni errato – con le regole e gli stili di comportamento che esso finisce con l’accreditare e imporre come riferimento – possa minare alla base l’impegno individuale e collettivo. E, anche, come la presenza di un sistema di relazioni errato produca i suoi effetti negativi attraverso la distorsione del quadro entro il quale ogni singola scelta si forma, così che è lo stesso comportamento razionale, e non solo generali orientamenti di valore, a risultarne influenzato.

Il calcolo di convenienza dei Comuni che domandano posti di lavoro in cambio di ettari sottoposti a tutela, è infatti giustificato in un contesto di esperienza in cui quello scambio sia considerato regola. Così come è corretto il calcolo di coloro che scelgono di affidare il proprio futuro agli appoggi personali, in un contesto di esperienza nel quale solo chi vi fa ricorso sia premiato.

I giovani meridionali dicono: se io lavoro per farmi una posizione non ci riesco se non ho degli appoggi politici, se ho gli appoggi politici ci riesco anche se non ho lavorato, quindi lavorare è inutile. Questo ragionamento è un calcolo di convenienza assolutamente corretto se le due premesse sono corrette. Il calcolo di convenienza è corretto, però altera i maniera radicale i comportamenti personali, nel senso che da questo deriva il fatto che chiunque lavori è uno stupido, perché se lavoro e non sono raccomandato non vale, se sono raccomandato e non lavoro vale, quindi lavorare non vale mai.
C’è di che riflettere, interrogandosi sulla rilevanza delle regole e sugli effetti che possono generare. C’è materia per pensare che, nel progettare l’intervento di sviluppo, l’obiettivo principale non sia mai quello che appare e che si dichiara, ma quello di costruire un sistema ove ciò che si dichiara sia desiderabile per chi vi è coinvolto.
Note

Premessa

Del tema qui in oggetto Sebastiano si è occupato prima quale direttore scientifico della sezione Ambiente e beni culturali di Nomisma (1986-1990), poi nell’ambito di Eco&Eco-Economia e Ecologia, la società di ricerca a cui Sebastiano, Paolo Bertossi ed io, con la partecipazione minoritaria di Nomisma, abbiamo dato vita nel 1991. Tutti gli studi sul settore dei rifiuti e i lavori di economia industriale dell’ambiente sono stati condotti da Sebastiano in Eco&Eco, in stretta collaborazione con Paolo Bertossi e Alberto Cottica, socio alla pari dal 1992. Sebastiano è stato fortemente coinvolto nelle attività di Eco&Eco, quale direttore scientifico della Società, sino a quando nel settembre 1998 ha assunto l’incarico di Presidente del Banco di Sardegna.

Punto 1

Dei danni alla conservazione derivanti non solo da eccessivo sfruttamento ma anche da sottoutilizzo delle risorse ambientali, si occupò lo studio Verso un equilibrio tra protezione e utilizzo delle risorse ambientali: una proposta di intervento per l’area del Gargano (1989), svolto da Nomisma - sezione Ambiente per conto Ministero dell’Agricoltura e delle foreste.

Punto 2

Lo studio sul parco d’Abruzzo commissionato dal WWF Italia, Parco naturale ed economia locale: il caso del Parco Nazionale d’Abruzzo (1989) venne curato da Sebastiano e da Renzo Martini nell’ambito di Nomisma - sezione Ambiente. L’articolo di Airone di commento alla classifica pubblicata da Il Sole24ore uscì a firma di Sebastiano nel gennaio 1990 col titolo I veri conti di un ospitale paese d’Abruzzo che batte molti primati ma corre un rischio.

Punto 4

I corsivi sono citazioni da un testo scritto da Sebastiano nel periodo in cui era direttore della sezione Ambiente di Nomisma e che, per quanto ricordi, ebbe solo circolazione interna.

Punto 5

Gli aspetti qui evidenziati furono oggetto dello studio Struttura e funzioni dell’ente parco del delta del Po (1993) commissionato a Eco&Eco dalla Provincia di Ferrara. Vi si esaminarono le ragioni e le condizioni per la creazione di un’agenzia di promozione economica collegata all’ente parco, sotto il profilo socio economico (a cura di Sebastiano e mia) e giuridico amministrativo (a cura di Marco Cammelli e Paola Terenziani della Facoltà di giurisprudenza di Bologna).
Le citazioni di Valerio Giacomini sono tratte dalla prolusione al convegno “Regioni e politica ambientale per la tutela della natura e della flora nel quadro della legge 382”, promosso dalla Regione Emilia Romagna e dalla Federazione nazionale Pro Natura, pubblicato in Natura e Montagna, n. 4, 1978. L’opera principale di Giacomini con riferimento agli aspetti qui trattati è Uomini e parchi, Angeli, 1981.

Punto 6

Ci si riferisce qui ad alcuni risultati dello studio Il parco imprenditore. Studio di esperienze in Francia, Spagna, Germania e Regno Unito (1994), svolto da Eco&Eco per conto della Regione Emilia Romagna, e al contributo Parchi diversi hanno ruoli diversi. Per una più precisa definizione del ruolo dei parchi, a firma di Sebastiano e mia, pubblicato nella raccolta di saggi I parchi regionali, INU, Firenze, 1994.

Punto 7

Sull’area di Vignola Sebastiano ed io abbiamo lavorato a più riprese: nel 1992 quando analizzammo la filiera della frutta nell’ambito degli studi per la creazione del Parco fluviale del Panaro; nel 1994-96 quando furono affidati a Eco&Eco gli studi socioeconomici per la redazione del Piano Regolatore Generale del comune (che Vignola – prima in Emilia – realizzò in forma associata con due comuni limitrofi); infine nel 1997 quando, mettendo a frutto la conoscenza ormai approfondita dell’area, ideammo il progetto Città castelli ciliegi che fu selezionato dalla Commissione europea (DG XI), e venne realizzato con risorse del fondo europeo LIFE Ambiente e della Regione Emilia Romagna.

Punto 8

I corsivi (incluso il termine “male della pietra”) sono citazioni dall’articolo di Sebastiano La sete del sud non attinge a Bruxelles pubblicato da La Repubblica – Affari&Finanza il 24.2.1997. L’articolo contiene un esplicito riferimento all’esperienza del progetto LIFE Città castelli ciliegi e alle difficoltà ad arginare il male della pietra anche in Emilia.

Punto 9

I contenuti e i termini usati (inclusa la “garibaldineria”) sono una trasposizione piuttosto fedele di alcuni spunti della lezione Quali politiche industriali per lo sviluppo locale? che Sebastiano tenne in uno dei primi appuntamenti di Artimino, a inizio anni novanta. La fonte che ho utilizzato è la trascrizione dell’intervento orale. La lezione, dedicata a esaminare sino a che punto le discussioni sui distretti siano in grado di innovare l’approccio allo sviluppo territoriale in “un tessuto locale qualunque”, è uno dei rari casi in cui Sebastiano ha collegato esplicitamente il suo interesse scientifico per il tema qui in oggetto con gli studi di economia industriale (“le cose che verrò dicendo sono figlie di tre esperienze principali che riassumo molto rapidamente: la prima è l’esperienza di studio dei distretti industriali, in particolare dei distretti industriali emiliani; la seconda è un interesse continuo per il tessuto industriale meridionale; e il terzo è connesso con una mia attività relativa a che cosa si può fare per garantire la sopravvivenza di aree locali destinate a parchi”).

Punto 10

I corsivi sui saperi sono citazioni dalla lezione di Artimino di cui al punto precedente. Il corsivo su Civitella è tratto dall’articolo uscito su Airone già citato al punto 2. La citazione relativa al Trentino è dall’articolo Il segreto dei Trentini: tanti soldi e la lezione di Maria Teresa pure pubblicato da Airone nel maggio 1993.

Punto 11

Lo Studio socio economico per il piano del parco nazionale del Gennargentu (1996) venne commissionato a Eco&Eco dalla Provincia di Nuoro, nell’ambito di un incarico a un ampio gruppo di lavoro formato da numerosi studiosi delle università della Sardegna, coordinato da Angelo Aru, Ignazio Camarda, Giovanni Maciocco e la stessa Eco&Eco.
Il corsivo sul calcolo di convenienza dei giovani meridionali è una citazione dalla lezione di Artimino già ricordata.

Sul punto 12, che manca

Un punto conclusivo, in cui ricapitolare le principali cose dette, manca. La lacuna si fa sentire, in un testo abbastanza lungo che nemmeno prevede un summary iniziale, come è buona regola fare e come Bastiano mi ha insegnato a fare. Ma c’è una ragione per questo: l’intento di non fissare e chiudere il quadro degli argomenti; non trasmettere senza volere l’impressione che esso pretenda di restituire la visione di Bastiano sulle questioni qui esaminate. Perché ovviamente – è appena il caso di dirlo – tutti i punti trattati non sono che finestre soggettive e parziali aperte su questa visione, e se una visione complessiva tende comunque a emergere, si tratta solo dell’inevitabile frutto dell’interazione tra il modo di vedere di Bastiano e il modo nel quale mi è possibile raccontarlo. Certo diversamente potrebbe esprimersi, al posto mio, ciascuna delle molte persone che nel tempo hanno lavorato con Bastiano sui temi qui affrontati: Annamaria Bigliardi, Laura Carlini, Fulvia Focker, Lorella Marchesini, Renzo Martini, Mario Pezzini, che negli anni ottanta hanno fatto parte del gruppo di ricerca della sezione ambiente di Nomisma; o Paolo Bertossi e Alberto Cottica, compagni stretti di idee e di lavoro negli anni della fondazione di Eco&Eco; o i più giovani Vincenzo Barone e Antonio Kaulard che a noi si sono affiancati in tempi più recenti.

[Ultimo aggiornamento: 23/08/2012 11:02:36]