Sebastiano Brusco - Del rilievo da attribuire a Pippo negli studi di economia politica

(Contributo di Sebastiano Brusco alla discussione del Dipartimento di Economia Politica, Novembre 1991)

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C'è una premessa da fare, ed è quasi ovvia: che ogni proposta di rifondazione o di modifica della facoltà, chiunque la faccia, finisce inevitabilmente per proporre la generalizzazione di una esperienza personale, o almeno di ciò che chi parla ha desiderato e tentato di realizzare nel corso del suo lavoro. Così accade nel documento di Michele Grillo, e così anche in questo.
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Non ho le idee molto chiare. La proposta che presento alla discussione non cerca semplicemente il placet dei membri del dipartimento. Cerca invece aiuto; per poter essere definita più precisamente, per essere disegnata in modo meno impreciso di quanto io non riesca a fare; in definitiva per essere articolata in modo realizzabile.
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Il primo passo è il tentativo di definire un modo di fare ricerca e di far didattica che chiamo Pippo; nella tradizione degli informatici, che chiamano in questo modo un file il cui contenuto è funzionale soltanto ad esperimenti su un nuovo pacchetto, il cui contenuto è non ben definito, utile ad esperimenti e a operazioni da definire man mano. Pippo è, prima di tutto, economia applicata, che si preoccupa di essere rilevante, nel senso che affronta problemi importanti, sui quali tutti noi sentiamo il bisogno di avere risposte e notizie più precise di quelle di cui disponiamo. È una ricerca sulla distribuzione del reddito, o sulla evasione fiscale. È un tentativo di capire quali siano i rapporti di subfornitura; iugulatorii, da parte del committente, o di sollecitazione al progresso tecnico e di consapevolezza che nel lungo periodo la propria produttività - quella della grande impresa committente - dipende anche dalla tecnologia usata dai subfornitori. È uno studio che cerca di accertare se il moratorium sia una esigenza dei giovani in cerca di prima occupazione o il risultato del comportamento degli imprenditori rispetto ai giovani che non hanno mai lavorato. È la ricerca di Hall e Hitch sul modo in cui le imprese fissano i prezzi. È, ancora, la ricerca del gruppo di Freeman su chi sono gli autori dell'innovazione. È la ricerca del gruppo del MIT sui tempi di progettazione delle nuove auto. È uno studio sui finanziamenti all'università e agli studenti universitari nei paesi membri della comunità europea. È la consapevolezza di quali sono le difficoltà connesse con la rilevazione trimestrale delle forze di lavoro, e degli straordinari livelli di incertezza che segnano quei dati. È l'analisi di chi compra chi, in ambito europeo, tra le imprese medie e grandi. È, anche, il tentativo di perseguire un equilibrio molto difficile, e spesso poco redditizio in termini accademici: quello tra l'impegno posto nell'accertare e nel migliorare la qualità dei dati e quello posto nella elaborazione statistica dei dati medesimi.
Sia ben chiaro: non penso che possa essere utile semplicemente "ascoltare" i fatti: so bene che i fatti, senza una teoria che li interpreti e che addirittura aiuti a definirli ed identificarli, non esistono. Ma resta vero che c'è differenza tra occuparsi di esistenza ed unicità dell'equilibrio in un contesto di equilibrio economico generale ed occuparsi di queste cose.
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Io credo che a Pippo debba essere dato grande rilievo, nella nostra Facoltà. Le implicazioni, in termini di organizzazione della ricerca" di acquisizione di competenze al dipartimento, e di didattica, sono molteplici.
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In termini di ricerca è immediatamente evidente che lavorare in questa prospettiva significa programmare e realizzare ricerche molto costose ed impegnative. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che, se si mette in movimento la macchina giusta, con circa 160 milioni è possibile intervistare, in Emilia, 4800 soggetti, che sono tanti quanti richiesti dal campione trimestrale delle forze di lavoro. Il punto è il seguente: è forse possibile - ed io credo sia assai utile - indurre nei membri del dipartimento la convinzione che rilevazioni importanti sono possibili, a condizione che ci si metta d'accordo su ragionevoli criteri di rotazione tra i gruppi, che il progetto sia preparato con cura e discusso in dipartimento. che vari mèmbri del dipartimento siano interessati e coinvolti. Sarebbe possibile, per esempio, organizzare una struttura locale che consentisse di raddoppiare i finanziamenti ottenuti dal CNR o dal Ministero; chi tira su 100 milioni dal ministero per una indagine potrebbe contare su altri 100 milioni da parte degli Enti locali di Modena. Tutto il dipartimento, anno per anno, potrebbe impegnarsi per ottenere il finanziamento ad una singola ricerca, e Modena potrebbe caratterizzarsi come il luogo in cui - purché ci sia il dovuto impegno, ed il progetto sia discusso in dipartimento, così da verificare l'affidabilità del gruppo coinvolto e la rilevanza del problema - le "grandi" ricerche sono possibili. Grandi ricerche che appunto coinvolgano un intero gruppo di ricercatori, che durino un paio d'anni o forse di più, e che producano un database sul quale ciascuno può trovare uno spazio di elaborazione personale.

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Le conseguenze sulla didattica sarebbero, anche esse, assai importanti. Per incominciare, potrebbe essere incentivata la pratica di affidare agli studenti la stesura di "tesine": non tesine da discutere in sede di esame, ma tesine da discutere col docente durante il corso, cosi che i suggerimenti e le indicazioni del docente possano essere utilizzate per la stesura della tesina successiva. Ancora, io credo che non sia impossibile, nel corso di laurea in Economia Politica, introdurre la pratica di discussione dei case studies così diffusa in Economa Aziendale. Si potrebbe discutere una serie di voci del bilancio della USL, per valutare i guai derivanti dalla mancanza di una contabilità industriale; potrebbero essere analizzate le dichiarazioni dei redditi di un gruppo di artigiani, per valutare quanto sia diversa la capacità di evasione di gruppi di artigiani diversi; si potrebbero usare gruppi di studio già raccolte per questa o quella tesi invitando studenti, a leggerle in una ottica particolare: per ricostruire carriere di lavoro, o per capire con quali capitali si fondano le imprese. Non mi è chiaro quale sia la tecnica per "preparare" i case studies, come fanno i nostri colleghi dell'Aziendale, né quale sia l'impegno necessario. Ma certo vale la pena di cercare di capire qualcosa di tutti questi aspetti della didattica da noi usualmente non praticati. Forse sarebbe anche possibile affidare agli studenti, uno per uno, il compito di fare cinque o sei interviste, di trascriverle, e di commentarle in un saggio, alla luce, naturalmente, di una adeguata bibliografia loro suggerita dal docente.
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Nella prospettiva di un potenziamento di queste attività, anche le competenze del corpo docente dovrebbero in qualche modo cambiare, Ciò che più immediatamente mi viene a mente è l'esigenza di attivare un corso di Statistica Economica, che dia la misura dei problemi che i dati disponibili propongono, ed un corso di Metodologia della ricerca, che insegni, come fare un campione, come fare un questionario come usare una rilevazione diretta per discriminare tra diverse proposte teoriche, Inoltre, se ci si muovesse in questa ottica - salvo casi davvero eccezionali, che pure ci sono, una certa frequentazione con Pippo dovrebbe diventare condizione necessaria per essere chiamati a Modena.
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Spero sia del tutto chiaro che non vi è, in tutto quello che precede, nessuna pretesa di privilegiare i fatti sulla teoria, o l'analisi micro sull'analisi macro, o le chiacchiere con la gente sulle chiacchiere con i libri. Il punto è un altro. Secondo me noi parliamo troppo con i libri, e troppo poco con la gente. E questo è molto grave, visto che ambedue le cose sono indispensabili al nostro mestiere. Oggi, supponiamo, nel corso dei quattro o cinque anni di Economia gli studenti siano indotti a studiare 8000 pagine. Io propongo che ad essi venga proposto un programma di studio di 6000 pagine, e che 2000 pagine equivalenti vengano Investite in attività Pippo: stesura di tesine, interviste dirette ad operatori economici, rilevazione di questionari preventivamente concordati, e così via.
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Ma quali, delle 8000 pagine attualmente insegnate, devono essere scartate? O, più in generale, come devono essere scelte le 6000 pagine da insegnare? Nel corso del tempo, due linee sembrano essersi affermate come prevalenti. Lunghini, e nel citarlo sto facendo di lui il simbolo di una convinzione assai diffusa, pensa che l'Economia Politica non possa essere altro che la storia della Economia Politica. Il MIT e la LSE, per contro, ritengono che l'Economia Politica sia ciò che è stato pubblicato, negli ultimi cinque o dieci anni, nelle più importanti riviste della corporazione. Io sono assai incline a pensare che Lunghini abbia ragione. Ma, su questo argomento specifico, a questo punto non nutro più sentimenti forti. La discussione importante, secondo me, è quella relativa alla quantità di economia applicata rilevante che viene insegnata.

[Ultimo aggiornamento: 23/08/2012 10:25:07]