E. Rullani, "Un economista antropologo alla scoperta dell'Italia misconosciuta: ricordo di Sebastiano Brusco"

Economia e Società Regionale
n. 77-78, 2002

Ho conosciuto Sebastiano Brusco in un incontro in cui si parlava di politica industriale. Uno di quegli incontri sospesi tra la teoria e la politica, tra la sinistra (dell'impegno intellettuale) e il mercato (delle convenienze che contano), tra la conservazione del passato e la curiosità del nuovo. Insomma una di quelle occasioni in cui si va alla ricerca di qualche modo - non ancora logoro - di mettere insieme lo scetticismo della riflessione intellettuale ("così va il mondo") con l'ansia di fare comunque qualcosa, indicando ricette valide, qui e ora, nel vivere concreto che ti trovi di fronte.
Brusco era uno dei grandi sacerdoti del rito iniziatico che apriva le menti dei nuovi adepti degli studi territorialisti, rendendoli disponibili ad apprendere. In quelle riunioni che ancora oggi ricordo, una parte del vecchio sapere veniva, per tacito accordo, messa in soffitta, praticamente senza discutere. E Dio sa se ce n'erano, a quel tempo, di cose da mettere in soffitta - o almeno tra parentesi - prima di arrivare a parlare del mondo concreto. Un mondo che rimaneva quasi sempre nascosto dagli schemi prefabbricati di una cultura marxista e di una cultura liberale che, contrapponendosi, avevano occupato la totalità della scena, lasciando ai nuovi arrivati soltanto la scelta se aderire all'una o l'altra alternativa. Tertium non datur.
E invece, illuminati dal sorriso bonario di Sebastiano, eravamo lì, a parlare di politica industriale e dintorni senza posizioni precostituite: e mi sembrava proprio un bell'inizio. Con pochi sapienti riferimenti, Brusco aveva dispiegato davanti a noi il terreno di una discussione che aspettava di essere riempita di esempi concreti, di casi personali, di istintive identificazioni. E così fu. Mi ricordo come un happening il modo con cui quel giorno - nel fuoco della discussione - mi sono sentito liberato di un retaggio culturale e ideologico da cui non ero mai riuscito fino ad allora a separarmi davvero, per trovarmi coinvolto in un dibattito fatto di cose, esperienze, persone e pulsioni concrete.
In quella sorta di epoché, che liberava dai ruoli e alle visioni convenzionali, nacque tra noi una reciproca simpatia e corrispondenza. Due condizioni che non sono mai venute meno nelle occasioni successive. Anche quando non ci siamo trovati d'accordo - e ci sono stati diversi casi in cui questo è successo - sapevamo che quello che contava era in realtà il coinvolgimento reciproco, personale, in un gioco di concetti e di pulsioni che aveva per oggetto la ricostruzione del nostro modo di vedere il mondo con materiali sempre nuovi, sempre diversi dalla volta precedente. Non importa se il tuo esempio è meno pregnante di quello che Sebastiano aveva già pronto (la sua abilità nel trovare l'esempio giusto lo portava sempre al centro del contendere); non importa se la spiegazione che cerchi di dare in risposta alle sue obiezioni ti viene un po' improvvisata e pasticciata. Quello che conta, e che ti lega, è il fatto di partecipare al gioco mettendoci del tuo, dandogli credito rispetto ad altri giochi più paludati e difesi. Rimangono fuori quelli che si negano, che restano appesi - nel dibattito - a qualche ramo privato, interdetto all'accesso e alla critica.
E Sebastiano, che pure avrebbe potuto farlo - se non altro per notorietà e per posizione accademica - non si negava mai. Anzi: era lui a rilanciare il gioco delle esperienze e delle utopie, delle grandi sintesi e delle piccole cose. Era lui a spingerti in un duello senza rete, dove la salvezza - alla fine - era arrivare a catturare la nuova idea che il gruppo era pronto a portare con sé, nel vasto mondo, fin dal giorno dopo.
Ricordando oggi il mio rapporto con Sebastiano, penso di aver creduto nelle piccole imprese e nei distretti - più che per il valore di verità delle idee sostenute - per un vincolo di appartenenza ad un circuito intellettuale che mi sembrava vero, solido, capace di arrivare alle radici delle cose.
E' un modo sbagliato di fare teoria, di contribuire alla verità scientifica? Me lo domando, anche se oggi so che i fatti ci hanno dato ragione: l'economia dei luoghi e delle piccole imprese si è rivelata una chiave privilegiata di accesso alla modernità postfordista. Ma allora non sapevamo se il paradigma kuhniano a cui stavamo lavorando avesse davvero i crismi della verità. O meglio, io non lo sapevo. Sebastiano forse nemmeno, anche se - a vederlo - sembrava convinto di sì.
Perchè allora, per imparare rapidamente, era necessario credere di più all'intelligenza delle persone con cui stavi che alla - lontana e molteplice - verità dei fatti. Questa epistemologia un po' avventurosa non mi turbava e non mi turba tuttora: in un'esplorazione del nuovo, conta più la fiducia nei compagni di viaggio che la precisa mappa in cui è segnato il cammino da compiere. Della mappa ti puoi non fidare; delle persone che sono con te, no, devi fidarti senza riserve. E stata una lezione di vita, e credo che in quegli anni, in quel gruppo, si sia imparato a fare economia in un modo diverso dal solito. Eccitante, coinvolgente, e, forse, vicino alla verità.
Mi sono sempre domandato, nel corso di quelle esplorazioni, che cosa aveva portato persone di vasti interessi teorici e di grande passione culturale come Brusco (o anche come Becattini) ad occuparsi di quello che - all'inizio - mi sembrava un oggetto teorico improbabile, come le piccole imprese e i distretti industriali. Era stata la convinzione teorica, l'insoddisfazione per l'eccesso di astrattezza delle categorie ereditate dalla tradizione neoclassica e dall'eredità marxista? O era stato l'impegno politico sui problemi locali, la necessità di portare la teoria ad occuparsi di bisogni immediati, vicini, aggredibili con interventi realizzabili senza aspettare le grandi rivoluzioni politiche (di là da venire)?
Forse. Ma col tempo ho scoperto che Sebastiano lo faceva (anche) per un altro motivo: la sua passione per quella che chiamerei antropologia sociale dei luoghi e del vivere civile: passione per il modo con cui gli uomini costruiscono il mondo che abitano, dotandolo di regole, di umori, di psicologie inventate a misura dei diversi contesti e problemi della quotidianità.
Mi ricordo di un giorno in cui, discutendo di come nascono regole che istituzionalizzano la vita e il lavoro in un distretto industriale (mi sembra che si parlasse di Sassuolo), Sebastiano mi prese da parte per spiegarmi una sua idea - l'idea che più lo appassionava, a giudicare dall'interesse con cui la esponeva - costruita intorno al codice barbaricino (il codice di comportamento che regolava e forse regola ancora la società dei pastori della Barbagia).
In questo salto concettuale tra Sassuolo e la Barbagia, tra la modernità delle piastrelle e la tradizione silvo-pastorale, capii in che modo Sebastiano vedeva il mondo: filtrato attraverso una visione antropologica che scavalca le epoche e i modi di produzione, le società e gli ordinamenti giuridici. Per arrivare all'essenza: al rapporto tra uomo e uomo, mediato dal bisogno di fidarsi (per quanto si può) e dalla necessità di non fidarsi (oltre certi limiti).
I distretti hanno offerto a Brusco un laboratorio in cui ricostruire una micro-società locale che deve stare sul mercato (altrimenti non riesce a vivere) ma che non può arrendersi al mercato, pena la trasformazione del luogo in una landa inabitabile. Più di ogni altra cosa, Brusco apprezzava il paziente lavoro di tessere le regole che consentono ai micro-sistemi di esistere come tali, di trovare i propri equilibri e di ricostituirli ogni volta cambiando quello che c'è da cambiare. La politica, credo, lo appassionava in quanto fonte di institutional design, capacità di leadership, potere di regolazione della microsocietà in cui i lavoratori, gli imprenditori, gli artigiani sono cittadini, ma in cui sono, soprattutto, uomini in carne ed ossa. Uomini sapienti, tecnicamente capaci di risultati sorprendenti (come i suoi studi documentano), ma - prima di ogni altra cosa - uomini che devono imparare a costruire, e rigenerare continuamente, regole sociali. Sono queste regole che consentono a ciascuno di fare la sua parte senza sacrificare quella degli altri. E senza troppo improvvisare. Il codice barbaricino insegna: se non vuoi che altri siano legittimati a rubarti le pecore, fai il tuo dovere di coscienzioso e vigile pastore. Rispettando il tuo ruolo avrai il rispetto degli altri.
Brusco ci ha spiegato con questo schema un'Italia che era allora misconosciuta. Quel sistema ricco di differenze, di umori, di sogni che molti economisti avevano ridotto a sottoscala della grande impresa e a periferia di una modernità malata. Era un sistema che veniva quasi sempre definito in negativo, e dunque visto come un insieme dolente di assenze che venivano registrate, temute, annunciate. Ai suoi occhi, e agli occhi delle inchieste con cui interroga gli uomini che quel mondo abitano, il luogo delle assenze è divenuto un territorio pulsante, ricco di umanità e di forza innovativa.
Le assenze, certo che ci sono, le assenze: Brusco ne ha compendiato un'intera antologia. Ma, detto questo, in quei luoghi non c'è, però, vuoto sociale, non c'è il deserto antropologico che emerge quando le assenze sono l'unico motivo per cui ci si occupa di piccole imprese, di distretti e di territorio.
Non voglio però parlare, qui, di Brusco economista e studioso del territorio: ci saranno altri modi, più distesi e lontani, di riflettere sul suo contributo e su quello che possiamo imparare seguendo il suo itinerario di scienziato sociale.
Credo che Sebastiano vorrebbe essere ricordato soprattutto per l'affetto, la cura, l'empatia con cui si è avvicinato quello che - in termini orrendamente positivistici - l'accademia continua a chiamare il suo "oggetto di studio". Penso che, in virtù di una speciale sensibilità, Brusco riuscisse nell'impresa di entrare in risonanza col suo oggetto di studio proprio come fa l'antropologo che desidera percepirlo dall'interno, senza diaframmi culturali e fisici.
L'antropologo vive - idealmente e praticamente - con la tribù umana che studia, perché solo così riesce a cogliere la sua logica interna, la sua gamma di significati intraducibili in tutte le altre culture. Così ha fatto Sebastiano, avvicinandosi ai distretti, alle piccole imprese, agli attori della politica economica locale con lo spirito di essere uno di loro e uno per loro, dedicato ad arricchire di significati il comune orizzonte di vita e di azione.
Ma un antropologo è tale se, ogni tanto, si permette il lusso di guardare la sua tribù da lontano. Quando meno ce lo aspettiamo, Sebastiano ci sorprende con i suoi rimandi e con i suoi confronti. In essi, avverti lo sguardo del saggio che riporta le esperienze della ricca pianura emiliana a quel non-luogo dello spirito che è la Sardegna dei suoi miti e dei suoi ricordi, archetipo senza tempo di ciò che nella vita è veramente essenziale.

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:21:48]