Francesco Cavazzuti, "Sebastiano Brusco e le politiche per lo sviluppo locale"

Facoltà di Economia, "In ricordo di Sebastiano Brusco", Modena 29 maggio 2002 Non sono un economista e non posso, evidentemente, richiamare i profili teorici e le ricerche sul campo che hanno indotto Sebastiano Brusco a orientare le sue opinioni in materia di piccole imprese. Sono stato tuttavia per un certo periodo, praticamente per gran parte degli anni 80, un operatore nel campo delle politiche industriali della Regione Emilia Romagna dirette a quelle realtà economiche che già allora venivano definite come distretti industriali. Avrei voluto, in proposito, anche per introdurre un qualche elemento di affettuosa leggerezza, ricordare le innumerevoli discussioni avute con Bastiano, un amico che abbiamo amato anche per la sua straordinaria ricchezza umana, che non gli impediva peraltro di essere un interlocutore quasi mai facile o arrendevole. Ho cambiato idea, oltre che per evitare, come spesso accade, che nelle commemorazioni assuma visibilità più il commemorante che il commemorato, perché in questi mesi nella stampa economica è andato riproponendosi il tema dei distretti industriali, con una valorizzazione degli stessi dopo anni di oblio se non addirittura di aperta avversione sia nei confronti della congruità scientifica della loro configurazione, sia nei confronti della loro praticabilità come terreno di politica industriale. In una recente intervista al Sole 24 Ore, che può essere assunta come indicativa di questo atteggiamento positivo, Alberto Quadrio Curzio afferma: “Il destino dei distretti che tutto il mondo ci invidia è curioso in Italia, tutti ne parlano bene, ma i sistemi produttivi locali sono come quei giocatori di calcio molto lodati che poi non vengono mai convocati in Nazionale. E’ da troppo tempo che la politica, ovvero i vari ministri che si sono susseguiti, non li considerano adeguatamente nel disegnare le politiche economiche e industriali del paese. Speriamo perciò in un profondo e rapido cambiamento”. Questa intervista, ma potevano essere scelte anche altre occasioni, induce a riprendere il ruolo “politico” di Sebastiano e delle idee da lui formulate in sede scientifica e nel dibattito politico ed economico e delle conseguenti scelte operative compiute dagli organi di governo centrali, regionali e locali. Le politiche industriali di distretto - sarebbe stata preziosa oggi la presenza di Loredana Ligabue come testimone per ciò che attiene la realtà emiliana - non nacquero come filiazione diretta delle ricerche di Sebastiano, ma come il frutto di vari tentativi ed esperimenti, anche originati dalla legislazione nazionale di promozione delle piccole imprese che si era andata sviluppando a partire dalla seconda metà degli anni 70. In questi complicati processi il ruolo di Sebastiano fu comunque elemento decisivo di sistemazione teorica e come tale anche riferimento fondamentale per l’iniziativa politica. Il contesto, che faceva da sfondo sia agli studi di Sebastiano che alle iniziative che sia andavano faticosamente attuando, non era però particolarmente ricettivo e in alcuni casi addirittura scettico e persino ostile. Molti i motivi di un atteggiamento siffatto. Uno di carattere generale consisteva nella scarsa considerazione, da parte di economisti, sociologi, politici, dedicata alle piccole imprese come attrici importanti dell’economia e in particolare dell’industria. La grande impresa costituiva allora l’unico terreno di confronto sia per la riflessione teorica, che per le iniziative di politica industriale, che per la stessa attività sindacale, né erano oggetto di particolare attenzione le scarne disposizioni della legislazione promozionale dianzi ricordata. Nella stessa facoltà di Economia e Commercio di Modena la vicinanza politica e il confronto con la sinistra sindacale, specie con i metalmeccanici, facevano sì che l’attenzione venisse quasi esclusivamente dedicata alla grande impresa anche, e forse principalmente, come terreno del conflitto sindacale più visibile e politicamente più significativo. Ma anche altri motivi cooperavano a emarginare il ruolo delle piccole imprese nella visuale degli addetti ai lavori. Nella stessa regione emiliana - dove pure il modello industriale si era ormai affermato con la massiccia presenza delle piccole e piccolissime imprese - le forze di sinistra, in particolare l’allora Pci, che pure ricoprivano come tuttora ricoprono il ruolo di governo locale, stentavano, e ciò sarebbe durato a lungo, ad assumere la realtà economica regionale come piattaforma di una riflessione politica e culturale più ampia. Si era di fronte allo storico complesso di inferiorità dei comunisti emiliani nei confronti della tradizione politica e culturale nazionale nella quale gli intrecci fra gli idealismi meridionali e gli operaismi, di diverso segno, torinesi e lombardi conducevano, malgrado le liturgie sui ceti medi e l’Emilia rossa, a non prendere in considerazione le piccole imprese come importanti destinatarie di una politica industriale complessiva che ovviamente non negasse il ruolo della grande impresa, come del resto Sebastiano Brusco e Giacomo Becattini non si erano mai sognati di fare, ma che assumesse la realtà industriale italiana come realtà composita. Questa insufficienza della riflessione generale, se da un lato impedì agli emiliani di incidere sulle politiche formulate a livello nazionale dal Pci non impedì dall’altro che in sede regionale venissero elaborate significative aperture nei confronti delle politiche di distretto: ricordo il ruolo di Lanfranco Turci e Federico Castellucci. Le forze di governo regionali furono in sostanza più lungimiranti, seppur nel limitato ambito regionale, delle ideologie che le caratterizzavano in sede nazionale. Le iniziative che vennero embrionalmente proposte a partire già sul finire degli anni 70 tuttavia non sempre vennero adeguatamente motivate e incontrarono incomprensioni e contrasti. Quanto alle difficoltà operative, accanto ai limiti delle persone preposte alle iniziative - fra i quali sono sicuramente da annoverare quelli di chi vi parla - vanno ricordate le diffidenze e le vere e proprie avversioni che incontrarono le politiche dei distretti: diffidenze e avversioni che, pur di diversa provenienza e di diverso e in qualche caso opposto segno politico finivano per costituire cause di ritardo nelle realizzazioni concrete. Fra queste vanno ricomprese le diffidenze proprie di coloro che vedevano nelle politiche di distretto una sorta di ripiegamento privatistico rispetto alle politiche di programmazione: giudizio riproposto ancora di recente in un pessimo libro sul riformismo emiliano da chi negli anni 70 era stato uno dei principali protagonisti del governo regionale dell’Emilia Romagna. Ma anche altre diffidenze e opposizioni provenivano da chi vedeva minacciato il proprio ruolo con i conseguenti interessi politici. Le camere di commercio, benché ampiamente rappresentate negli organi decisionali delle politiche di distretto, si ritenevano invase rispetto a funzioni e ruoli considerati esclusivi e la cui gestione era peraltro nelle mani delle forze politiche costituenti il governo nazionale: anzi, per essere più esatti, nelle sole mani della Democrazia cristiana, la cui politica nei confronti dei ceti medi produttivi trovava nelle medesime camere di commercio, assieme alle casse di risparmio, un tassello rilevante. Scarsissimo e rigorosamente subordinato in queste istituzioni era il ruolo del Psi. Le mani “rosse” sulle imprese era ciò che invece veniva paventato dalla Confindustria, anche se la preoccupazione veniva largamente mascherata dalle critiche alla conclamata inefficienza dell’intervento pubblico. Questo atteggiamento non va peraltro confuso con quello pesantemente liquidatorio che caratterizzò una fase successiva delle posizioni confindustriali - almeno di qualche importante esponente - le quali, va detto per amore di verità, hanno trovato più di una benevola attenzione nei governi regionali in un periodo a cavallo fra gli anni 80 e 90 e per una lunga fase dell’ultimo decennio del secolo, nel quale i partiti della sinistra, in forti difficoltà dovute alle note vicende storiche, erano all'affannosa ricerca di legittimazione. Anche da parte delle organizzazioni artigiane vennero mosse critiche di non poco conto alle politiche dei distretti considerate come strumenti, e certamente lo erano, di superamento da parte delle Regioni, in particolare di quella emiliana, dei limiti posti allora dall'art. 117 cost. alla competenza delle Regioni ordinarie in materia di politica industriale. Si temeva cioè che l’artigianato e le sue tutele venissero emarginati all’interno di una complessiva politica industriale, rivolta anche ad imprese di maggiore dimensione. A dire il vero questo complesso di ostacoli non compromise sostanzialmente la realizzazione di importanti iniziative. Alcune organizzazioni da un’iniziale diffidenza si mossero verso un atteggiamento propositivo: questo fu in particolare il caso della Cna. Ricordo che dopo discussioni spesso accese, Alfredo Tosi e Irene Rubini operarono in termini decisamente positivi non facendo mancare il loro appoggio in momenti cruciali. Il governo regionale mantenne, in quell’epoca, il suo appoggio alle politiche distrettuali i cui ritardi e lentezze trovavano origine anche nei faticosissimi processi di mediazione fra l’Ente pubblico promotore e le associazioni imprenditoriali, tutte alla fine intenzionate a partecipare. Quelle vicende potrebbero diventare oggetto di un’analisi tesa a ricostruire, pur in un ambito che resta essenzialmente un microcosmo limitato a quelle che furono alcune esperienze regionali, i processi di formazione del consenso in un contesto che era, ed è tuttora, profondamente consociativo e fortemente segnato dalla sovrarappresentazione delle categorie economiche. Questa considerazione potrebbe apparire un indebito allargamento del discorso: essa invece mi ricorda e ricorda a tutti noi le impazienze di Sebastiano rispetto ai tempi di realizzazione delle iniziative, specie quando queste avevano come obiettivo la costituzione di centri di distretto. Andrea Ginzburg ha già ricordato con finezza la visione dei distretti che accompagnava le ricerche e le proposte di Sebastiano: per un giurista, o che tale pretenderebbe di essere, come me si deve concordare con quanto detto da Andrea. Non è difficile riconoscere nelle posizioni di Sebastiano una concezione che si potrebbe definire organicistica dei distretti industriali: quasi una comunità nella quale concorrenza e solidarietà si intrecciano in un concerto di culture imprenditoriali radicate e strettamente connesse alla professionalità dei lavoratori. In tutto ciò avevano rilievo le remote e recenti origini contadine, l’abitudine al lavoro dei mezzadri e dei coltivatori diretti; non si dimentichi che proprio all’agricoltura e al suo intreccio col lavoro a domicilio soprattutto delle donne e con la piccola impresa venne dedicato un importante lavoro di Brusco, forse il primo della sua stagione modenese. A fronte di questi distretti, quasi sentiti “romanticamente” come una comunità pulsante, le lentezze della politica apparivano insopportabili e i meccanismi di formazione del consenso artificiosi. Di qui una serie interminabile di discussioni con Bastiano, raramente disposto a giustificare i tempi e i ritardi dell’azione pubblica. In ciò Bastianino esprimeva una convinzione, comune peraltro a molti economisti e, quasi paradossalmente non ai giuristi, per la quale la decisione politica poteva trovare la sua celere traduzione pratica da parte di un apparato di esecutori e molto probabilmente questa convinzione lo portò, in anni più recenti, a valutare positivamente proposte di organizzazione dei distretti con caratteri – si perdoni l’orrenda parola – amministrativistici, quali quelle formulate molto ingenuamente e astrattamente da un autorevolissimo economista come Paolo Sylos Labini. Le politiche svolte nei confronti dei distretti, è ora di ricordarlo, non hanno mai posto in essere complesse organizzazioni comprensive di tutte le possibili articolazioni delle attività distrettuali: esse, dove hanno prodotto qualche risultato concreto, si sono limitate alla costituzione di soggetti collettivi, nella forma di consorzi aventi come oggetto l’erogazione di servizi reali alle imprese, operanti soltanto su alcuni segmenti della complessa realtà del distretto. Esse pertanto erano, e sono tuttora, assai lontane dalla pretesa di intervenire sulla intera gamma dei problemi propri di ogni singolo distretto. A quasi vent’anni dalle loro prime apparizioni il bilancio delle politiche che ho sommariamente richiamato non è molto sostanzioso. Ciò non è dovuto tanto alle difficoltà e alle insufficienze di cui si è parlato, quanto piuttosto al mutare del clima politico che, a partire dalla fine degli anni 80, ha visto la insistente proposizione di modelli liberistici e la diffusa condanna di ogni forma di iniziativa pubblica nel campo dell'economia. Al di là dei risultati effettivi di queste ideologie neoliberiste, in questo clima, nel quale veniva da più parti negata la legittimità stessa della politica industriale, anche la nozione di distretto venne da parte di più o meno autorevoli commentatori considerata inutilizzabile o illusoria o come strumento di legittimazione surrettizia dell’intervento pubblico che doveva invece essere travolto dalla riaffermazione della centralità del mercato. Nessuno, ovviamente, vuole misconoscere le infinite storture che nel nostro sistema sono state causate dall’intreccio fra Stato ed economia; si deve però ricordare che gli strumenti posti in essere, quanto ai loro contenuti pubblicistici, non andarono mai al di là di forme consortili miste nelle quali erano, e sono, abbondantemente rappresentate le categorie degli imprenditori privati, ben lieti peraltro di assegnare all’iniziativa pubblica l’onere dei costi promozionali e di gestione dei servizi. Il modello affermatosi in contrapposizione alle politiche dei distretti basate sui servizi reali alle imprese, d’altra parte, non ha visto una generale ritirata dei soggetti pubblici, quanto invece il rilancio di una forma di intervento assai tradizionale e sempre molto amata dall’imprenditoria italiana di ogni dimensione e propensione politica: il credito agevolato e l’esenzione fiscale erogato o concessa in base a procedure automatiche. La stessa sinistra di governo locale, regionale e nazionale non ha esitato a imboccare una strada politicamente poco impegnativa, anche se non sono mancate altre iniziative di un qualche significato. Resta però il fatto che le ingenti risorse destinate esclusivamente ad abbattere il costo degli investimenti non sembrano a tutt’oggi avere garantito un significativo aumento della produzione e dell’occupazione industriale, pur naturalmente scontando gli effetti dell’attuale crisi economica mondiale, oltre che uno sviluppo dell’innovazione competitiva. I crediti agevolati, come ormai anche le opinioni più refrattarie cominciano a riconoscere, sono stati, quando lo sono stati, investiti in ristrutturazioni dei processi produttivi senza effetti rilevanti sull’innovazione di prodotto. Di qui la preoccupazione ormai dilagante circa la scarsa competitività del nostro sistema industriale. Ben vengano dunque le rivisitazioni dei distretti industriali come auspicabile occasione di rilancio di efficaci segmenti delle politiche industriali: per me e per molti presenti come occasione per riabbracciare nel ricordo un amico compianto.

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:18:58]