Sebastiano Brusco - Giancarlo Corò e Giuseppe Tattara, "Testi e pretesti"

Recensione di "Industriamoci. Capacità di progetto e sviluppo locale"

Testi e pretesti
Economia e società regionale, 91 (3), 2005, pag. 155-162

Questo libro raccoglie gli interventi scritti da Sebastiano Brusco negli anni che vanno dal 1995 al 2000 per l’inserto Affari e finanza de "La repubblica". Si tratta quindi di scritti brevi, che dialogano direttamente con il lettore sui temi dell’attualità economica ma nei quali si intravede un "pensiero profondo", basato su analisi dello sviluppo economico a cui Brusco ha lavorato come studioso e docente all’Università di Modena dai primi anni ’70 fino alla sua prematura scomparsa, avvenuta nel gennaio del 2002. In questo senso, sebbene gli interventi raccolti nel libro risalgano ad una fase molto diversa del ciclo la lettura risulta di estrema attualità, anche perché i temi affrontati sono quelli oggi cruciali nel dibattito di politica economica, come il ruolo delle piccole imprese industriali e delle banche locali, le prospettive del modello di specializzazione italiano, gli strumenti di politica industriale più idonei per favorire l’innovazione e competere in un’economia aperta.

Gli scritti contenuti in questo libro offrono, dunque, uno spaccato del modo di porsi di Sebastiano Brusco di fronte ai problemi e ai suoi interlocutori. Brusco usa una metodologia forse più da etnologo che da economista, e proprio in questi articoli mette in mostra la sua rara qualità di "economista che sapeva raccontare", come lo ha efficacemente descritto Alessandra Carini.
Di fronte al successo che anche le imprese di minore dimensione registravano sui mercati esteri – un problema la cui evidenza è stata negata da molti economisti e che è comunque difficile da spiegare con il ricorso astratto ai modelli economici – Brusco sostiene che "conviene più narrare una storia che argomentare in termini di teoria". E prosegue raccontando come una signora toscana riesca a valorizzare la propria professionalità e conoscenza del settore delle pelli per affermarsi con successo agendo come buyer per una importante azienda inglese. Che cosa spiega questa singolare valorizzazione delle competenze? Innanzitutto il fatto che l’imprenditrice toscana opera in un settore dove il prodotto è complesso, essendo importante nel mercato di riferimento la qualità manifatturiera dell’oggetto e la sua continua variabilità nell’aderire ad esigenze di stile, funzionalità, tecnologia. Le piccole imprese non riescono a arginare la concorrenza dei produttori esteri nei prodotti standardizzati di massa, ma trovano il loro punto di forza in nicchie di mercato dove il successo si fonda sulla capacità delle imprese di controllare l’intera catena della produzione, dalla qualità delle materie prime ai dettagli del prodotto e agli accessori, e dove fanno ancora premio la professionalità e la capacità creativa dell’imprenditore. Secondo Brusco, infatti, l’imprenditrice toscana fonda il proprio successo sul fatto che la conoscenza del prodotto e del mercato, la raffinatezza del gusto, la rendono difficilmente sostituibile con fornitori che basano la loro concorrenzialità su fattori di costo. Da questa storia, allora, si impara che le piccole imprese distrettuali hanno costruito il loro successo e possono, guardando avanti, trovare uno spazio di mercato non residuale solo sull’affermazione dei prodotti non standard, sulla capacità di studiare la domanda in tutte le sue sfaccettature, cogliendone quelle più complesse e innovative, perciò anche più promettenti.
Qui ritorna un altro tema caro all’autore, quello relativo all’importanza delle innovazioni incrementali e di processo, accanto alle innovazioni radicali di prodotto. Molti di noi sono abituati a iscrivere le innovazioni in alcune tassonomie, la più nota delle quali è quella avanzata da Keith Pavitt a seguito del suo importante lavoro di analisi empirica sull’industria manifatturiera mondiale, tassonomia tuttavia interamente basata sull’innovazione di prodotto. E anche qui il racconto di Sebastiano Brusco sulla storia dell’impresa Beghelli dice più di molte teorie. Com’è noto, Beghelli produce una serie di prodotti per la casa e per l’assistenza alle persone anziane: si tratta in larga misura di prodotti costruiti sfruttando la presenza di innovazioni già esistenti sul mercato, adattate a volte con poco, un paio di pinze e poco più, senza ricorrere a ricerca di base, ma analizzando e percependo in modo quasi istintivo i bisogni dei consumatori da un lato e, dall’altro, inventandosi molte volte dei veri e propri "trucchi" con i quali adattare, ma meglio si direbbe trasformare, i prodotti esistenti in commercio in prodotti completamente diversi. In questo modo i prodotti di Beghelli si vengono a collocare su di una nuova fascia di mercato, che prima non esisteva e a cui proprio l’inventiva di questo imprenditore ha dato corpo e sostanza. In altri termini, i prodotti Beghelli hanno caratteristiche, prezzo, destinazione loro propria, e creano così un tipico mercato competitivo nel quale le imprese che vogliono entrare devono essere in grado di competere sulle qualità distintive dei prodotti, non solo sui costi.
Si tratta di elementi che troviamo ripetuti ed analizzati in altre opere di Brusco, dove sono oltretutto uniti a importanti considerazioni teoriche sulle economie di scala e sul modello di distribuzione sociale delle conoscenze.
Tuttavia, l’interesse maggiore che questi scritti brevi rivestono sta nell’ansia del fare, nei suggerimenti di politica economica che si possono trarre dalle analisi e dalle descrizioni ricavate dai fenomeni osservati. Qui, fatalmente, il discorso si fa più complesso, articolato e mostra anche alcuni dei suoi limiti. A commento di un importante seminario internazionale promosso dall’Ocse sulle politiche per l’innovazione, l’autore si chiede quale efficacia possano avere in Italia i parchi tecnologici, che molte regioni hanno proposto sul loro territorio. Secondo Brusco si tratta per lo più della trasposizione di alcuni modelli esteri – come la Silicon Valley in California, l’area attorno alla Route 128 nel Massachusetts, o come Cambridge in Inghilterra – che hanno avuto successo perché sorti a ridosso e strettamente connessi con importati centri di ricerca universitaria, con cui le imprese sono entrate in relazione fin dal loro start up. Ma laddove questo insieme di relazioni non esiste già, la creazione del parco si traduce in un’operazione prevalentemente immobiliare. E non mancano gli esempi in questo senso, specialmente nel nostro paese, dove la ricerca pubblica fa ben poco per incentivare quei collegamenti tra il mondo dell’università e le imprese che sono sempre stati alla base dei processi di innovazione negli Stati Uniti. Che la nostra situazione sia diversa non è difficile da provare: passando per Venezia viene subito da pensare all’operazione Vega, dove il ruolo del parco come "investimento immobiliare" è stato quasi teorizzato, nella convinzione che una grande infrastruttura fisica, dotata di qualche incentivo per l’insediamento di imprese a base tecnologica, avrebbe da sola messo in moto un circuito virtuoso di innovazione. Pur non mancando anche in Vega esperienze interessanti, si è tuttavia ben lontani dall’idea di parco tecnologico come un incubatore di innovazione, capace di promuovere la nascita di imprese science based, e/o di diffondere conoscenze applicative e stimolare lo sviluppo tecnologico nel tessuto produttivo locale.
Nel criticare il modello dei parchi tecnologici, Brusco sostiene che la soluzione più idonea per elevare la capacità di innovazione dei sistemi locali di piccola e media impresa si dovrebbe basare su un mix di tre fattori: una rete semipubblica di servizi di assistenza tecnica alle imprese, un sistema qualificato di formazione "politecnica", e la capacità delle banche locali di crescere sul proprio territorio attivando nuovi rapporti con i circuiti internazionali del credito. In questo complesso di azioni a sostegno dello sviluppo locale, Brusco riesce a mettere in campo conoscenze maturate non solo nello studio dei meccanismi della crescita economica ma anche dalla propria esperienza come interprete diretto della politica industriale, vissuta inizialmente come consulente della Regione Emilia Romagna, per poi proseguire alla direzione nazionale dell’Osservatorio bilaterale dell’Artigianato e conclusa alla presidenza del Banco di Sardegna.
Per quanto riguarda i centri di servizio alle imprese, le analisi di Brusco tradiscono l’esperienza, forse non priva di sfaccettature illuministiche, del modello emiliano, dove la qualità della ricerca applicata e dei servizi di trasferimento tecnologico sembrano assicurati dalla "dedizione" degli operatori più che da incentivi economici. Tuttavia, provando oggi a riflettere sull’esperienza del Veneto, i centri di servizio alle imprese cresciuti all’interno dei distretti rappresentano, pur con molti limiti, ciò che di meglio si è saputo fare in questa regione a sostegno dell’innovazione. Abbiamo in provincia di Treviso alcuni casi significativi pilotati dalla locale Camera di commercio che hanno svolto un’opera di attivo battistrada sia nel campo della diffusione dell’innovazione alle imprese, sia nell’ambito dell’istruzione professionale. Non hanno certo fatto ricerca di base, ma hanno promosso l’impiego di tecnologie all’avanguardia (pensiamo al rapid prototyping, ai nuovi sistemi di gestione della logistica e, oggi, alle nanotecnologie), che sono in grado di indurre profonde innovazioni sia nella struttura organizzativa dell’azienda sia nella natura del prodotto, di cui consentono miglioramenti qualitativi spesso di grande importanza. Simile, anche se in ambito diverso, è stata l’esperienza del Museo dello scarpone e del Centro moda a Montebelluna. Sempre in Veneto, altri esempi significativi sono dati dal centro servizi dell’Acrib – l’associazione che riunisce i calzaturieri della Riviera del Brenta – da cui si è poi sviluppata l’idea, che a Brusco sarebbe senz’altro piaciuta, di creare un "politecnico della calzatura", un centro di innovazione e trasferimento tecnologico, finanziato dalle stesse imprese del distretto e sostenuto dalla Regione, con una docenza composta in prevalenza da "tecnici che lavorano nelle imprese". Un altro centro che sembra rispondere al modello di Brusco è il "Centro produttività" della Camera di commercio di Vicenza, che opera nel campo della formazione tecnica e professionale. Questo centro organizza la propria offerta sulla base dell’elaborazione di "gruppi di studio" per aree tecnologiche, formati da esperti che lavorano all’interno delle imprese e nel mercato della consulenza, e che si propongono di promuovere innovazioni incrementali, basate sul "sapere ingegneristico" piuttosto che sulle conoscenze scientifiche, quelle che si ritrovano nei reparti R&D della grandi aziende e che poco hanno a che fare con il tipo di innovazioni di processo che interessano il mondo delle piccole e medie imprese.
Si tratta di centri di servizio ancora poco diffusi, che laddove esistono hanno comunque dato buona prova, in ragione del fatto che sono costruiti su competenze tecniche vere, voglia di fare e una reale conoscenza del territorio e dei suoi attori. Alla base di queste esperienze c’è la consapevolezza della natura aperta delle reti della conoscenza e della necessità di sostenere la capacità di assorbimento tecnologico delle imprese. Perciò, la funzione essenziale che questi centri di sevizio si sono trovati a svolgere è stata quella di interfaccia fra la dimensione locale dei bisogni applicativi e delle conoscenze tecniche e scientifiche. Sappiamo bene, infatti, che le innovazioni significative sperimentate nei sistemi di piccola e media imprese – come, pensando al Veneto, lo sviluppo dello scarpone di poliuretano, oppure il design dei mobili da cucina e da bagno, fino ai nuovi tessuti tecnici – si sono alimentate di competenze che venivano dall’esterno del distretto, quasi sempre di natura intersettoriale, e che con il distretto tradizionalmente inteso avevano, in origine, poco a che fare. Questo aspetto rappresenta anche un punto critico di tali esperienze, punto critico che per altro non è facilmente superabile nemmeno nei campi paludati della ricerca pura, i quali, proprio in virtù del tipo di conoscenza "codificata" che mettono in gioco, quasi sempre si propongono all’interno di schemi settoriali chiusi.
Ma è proprio quando la traiettoria tecnologica cambia rapidamente (come nel caso descritto da Brusco del passaggio da controlli meccanici a elettronici per le macchine utensili) che le imprese non vedono rapidamente la via di uscita, la nuova strada da percorrere. Il centro di servizi, allora, fornendo un’attività che sta in mezzo fra consulenza e formazione, aiuta le imprese a capire i loro bisogni sulle tecnologie e sui mercati latenti e ad articolarli in modo che esse abbiano gli elementi per rispondere e compiere in autonomia le proprie scelte strategiche. In questo modo, sempre secondo Brusco, il centro di servizi non agisce in concorrenza con i fornitori di tecnologia e il mercato dei consulenti, poiché questi rispondono alla domanda esplicita delle imprese e non si curano di quella componente che ancora non è in grado di esprimersi in "domanda pagante". Per questa ragione, sostiene Brusco, i centri di servizio devono essere almeno in parte finanziati tramite risorse pubbliche e devono essere sottoposti a procedure di valutazione che siano ritagliate su questa loro complessa funzione.
Pur dovendo tenere in attenta considerazione la possibilità che i centri di servizio non siano in grado di raggiungere tutte le imprese del sistema locale (p. 51), questo limite non è tale da inficiare la fiducia nello strumento che per Brusco resta un caposaldo, assieme alla istruzione tecnicoprofessionale (p. 18) dei beni collettivi su cui si fonda il successo dei distretti industriali.
Quello della valutazione è, per Brusco, un elemento imprescindibile per la gestione dei centri di servizio. La valutazione richiede procedure complesse dato che, come nota con acume l’autore, le imprese che si rivolgeranno a questi centri saranno in genere autoselezionate, essendo per lo più quelle guidate da imprenditori meno avversi al rischio, e che hanno perciò una concreta in-tenzione di innovare, non le altre. D’altro canto, lo stesso problema si ritrova quando si elargiscono contributi diretti alle imprese, perché anche in questo caso, come Brusco documenta sulla base di ricerche da lui condotte, le imprese che li ottengono hanno di solito già deciso quali investimenti effettuare, e in molti casi li avrebbero effettuati comunque.
Un terzo pilastro delle azioni di sostegno all’innovazione è rappresentato dal sistema locale del credito, a cui Brusco, sulla scorta della sua esperienza alla presidenza del Banco di Sardegna, dedica gli articoli del periodo più recente. Il ragionamento di Brusco, molto lontano dal refrain attuale, è teso a difendere l’idea della "banca media" come strumento in grado di coniugare la massima aderenza ai problemi di sviluppo del territorio con la capacità di impiego degli strumenti finanziari e assicurativi più innovativi. Brusco esprime questo concetto con straordinaria efficacia:
"A ben vedere, ancora una volta il problema è di garantire un rapporto corretto tra radici locali e capacità di vedere lontano, senza cadere nel localismo e senza farsi ubriacare dalla falsa uniformità della modernizzazione. Le radici salde non devono essere di ostacolo a vedere ciò che accade nel vasto mondo, ma la consapevolezza delle molteplici connessioni che legano le aree del mondo non deve impedire di osservare con attenzione ciò che accade nel piccolo mondo in cui si opera" (pp. 146-147).
Seguendo una linea di ragionamento perfettamente coerente con la teoria sulla frammentazione tecnica della produzione, Brusco sostiene che una banca non deve necessariamente avere al proprio interno tutti i nuovi servizi finanziari, i quali richiederebbero economie di scala che solo pochi grandi istituti di credito si possono permettere, ma può acquistare tali servizi nel mercato internazionale e adattarli alle esigenze specifiche delle imprese. Nell’idea di Brusco, le banche si trovano perciò a svolgere una parte importante nel sistema di istituzioni dell’economia locale, non molto diverso da quello dei centri di servizio. A questi la banca si avvicina sia nelle funzioni di interfaccia fra dimensione locale e globale, come anche nel modello di azione che dovrebbe essere in grado di sviluppare una cultura del progetto e una capacità di valutazione.
A qualche anno dagli interventi di Brusco bisogna notare che un’articolazione istituzionale che faccia riferimento alle pratiche di valutazione in Italia è sempre mancata e non si vedono ancor oggi passi concreti in questa direzione. Si tratta di un tema certamente complesso, poiché non ci si può limitare ad una misura di efficienza della spesa quanto, piuttosto, si deve valutare l’efficacia degli esiti molto spesso indiretti – in termini di esternalità – dei servizi all’innovazione. È un problema da affrontare comunque con una apposita strategia valutativa, concepita dall’inizio, quando le stesse politiche vengono disegnate. Probabilmente, prima di procedere a serie prassi valutative verranno accantonati i centri di servizio e così il problema della valutazione non si porrà più. In fondo, il discorso degli strumenti per l’innovazione nei distretti e la discussione sul ruolo che possono assumere i centri di servizio ha solo anticipato alcune delle problematiche che stanno emergendo oggi con la delocalizzazione, tema sul quale, in verità, Brusco manifestava un certo scetticismo.
Anche qui si tratta di individuare le fasi cruciali del processo produttivo, quelle che alla fine muovono il meccanismo di sviluppo del distretto e che sono alla base delle innovazioni strategiche. Su questo punto le domande sono almeno due: quali fasi devono essere tenute all’interno del distretto e quali, invece, possono andare all’estero e offrire alle imprese componenti e semilavorati a prezzi più bassi? E su quali competenze professionali si deve puntare per riqualificare i lavoratori che vengono inevitabilmente spiazzati da questi processi?
L’idea di Brusco non è negare l’importanza dei progetti di ampio respiro, fondati sulla ricerca e l’interconnessione con le università, i laboratori, gli uffici studi. In un paese come il nostro, fanalino di coda nella spesa R&D, tanta più ricerca si fa e meglio è. Lo stesso sorgere di molti distretti ha ricevuto stimolo e forza dalla presenza di alcune grandi imprese innovative e dai loro spillover. Tuttavia, i sistemi di piccole imprese, oggi minacciati dalla delocalizzazione, hanno bisogno di interventi mirati sia sul fronte dell’innovazione di fase – per qualificare la produzione, spostarsi su segmenti a maggiore valore aggiunto, sviluppare nuove funzioni di servizio – sia sul fronte del welfare locale, senza il quale la frammentazione produttiva non sarebbe più in grado di ricomporsi in modo efficiente grazie anche all’integrazione sociale.
Diversi interventi di Brusco toccano, infine, il tema del Mezzogiorno, che inestricabilmente si intreccia con quello dei modelli di politica economica e industriale. Al Mezzogiorno servono aiuti per uscire da una situazione di ristagno che in questi anni ha sempre di più distanziato le regioni meridionali dal resto del paese. Non vanno certo dimenticate le formazioni distrettuali campane e pugliesi descritte da Luca Meldolesi e Gianfranco Viesti, ma certamente qualche rondine non fa primavera.
Secondo Brusco, la tastiera sulla quale articolare gli interventi per il Mezzogiorno deve essere ampia, per tenere conto di problemi che hanno natura diversa. Si può trattare delle grandi imprese in crisi finanziaria, oppure dell’esigenza di attirare nuovi investimenti dall’esterno, o di sostenere pratiche di emersione e sviluppare nuove reti di divisione del lavoro con i distretti del Centro-nord. Qui ritorna in Brusco l’accento sul ruolo delle istituzioni, diremmo proprio delle istituzioni intermedie che gli aiuti debbono stimolare a formarsi e poi a far emergere. Brusco critica, in questo senso, l’automatismo degli aiuti, non tanto per voler negare, contro ogni evidenza, che le procedure discrezionali possano dare luogo a sprechi, corruttele e inefficienze. Ma proprio perché lo sviluppo è un processo che presuppone, forma ed eleva le capacità umane di un territorio, esso è essenzialmente un processo di apprendimento sociale. Questo processo non si ottiene se si tolgono agli attori locali le responsabilità sul proprio futuro. E qui la lezione di Hirschman ritorna a chiare lettere.
Un aspetto su cui Brusco insiste è quello che riguarda l’analisi dei presupposti di una strategia di cooperazione fra sistemi locali del Mezzogiorno e distretti del Centro-nord. Quando Brusco scrive, questa prospettiva di cooperazione appare ancora realistica, anche perché le ragioni che potevano spingere gli industriali del nord a costruire nuove unità produttive al sud erano diverse, a partire da una condizione di sviluppo sostenuto e di piena occupazione nei distretti del Nord, alla disponibilità del governo di sostenere nuovi patti territoriali e contratti di programma fra distretti. Secondo la visione ottimistica di Brusco, c’erano allora tutte le condizioni che avrebbero potuto far partire lo sviluppo del Mezzogiorno anche attraverso una politica sistematica di gemellaggi economici e di partnership fra imprese del Nord e aree del Sud. A parere di Brusco, lo sviluppo del Mezzogiorno richiede un intervento pubblico che medi tra le parti e definisca, attraverso un contratto di programma, i termini dell’operazione (p. 121), garantendo una serie di provvidenze, di natura non episodica, anche alle imprese del Nord che investono nel Meridione per indurle a spostarsi. In questa posizione di Brusco c’e’ un chiaro appoggio alla linea del Tesoro della seconda metà degli anni novanta, basata essenzialmente sui contratti d’area e la programmazione negoziata, nel tentativo di fare dei distretti lo strumento per "riunificare anche economicamente il paese in cui si sono affermati" (p. 128).
In Brusco, studioso appassionato dei distretti, si ritrova una forte tensione nel convincimento che i distretti possano diventare attori dello sviluppo del Mezzogiorno, replicando ed estendendo in qualche modo il successo raggiunto nel Centro-nord. Rileggendo questi articoli alla luce dei fenomeni più recenti, appare piuttosto netta la sottovalutazione delle situazioni di crisi nei distretti, della crisi della finanza pubblica e delle forze che spingono oggi in modo prepotente verso la delocalizzazione all’estero e che erano già in pieno sviluppo quando Brusco scriveva. Se pensiamo all’esperienza di gemellaggio economico organizzata dalle associazioni degli industriali di Treviso e Vicenza con l’area di Manfredonia, risulta difficile catalogarla, per diverse ragioni, fra i casi di successo. Nel frattempo, proprio le associazioni industriali di Treviso e Vicenza si sono distinte negli ultimi anni per diverse iniziative di "internazionalizzazione cooperativa" con aree dell’Europa Centro-orientale e, più di recente, con l’Europa Orientale e l’Estremo Oriente. Una conferma, perciò, che i distretti possono davvero diventare, come sosteneva Brusco, attori di una nuova forma di apertura verso nuovi mercati e di cooperazione allo sviluppo. Ma le direzioni verso cui questa cooperazione si può esprimere dipendono, oltre che dalle condizioni della politica, da fattori definiti dall’evoluzione dello scenario internazionale.

[Ultimo aggiornamento: 23/08/2012 11:59:04]