Paolo Gurisatti, "Il fascino del lavoro intelligente"

Economia e Società Regionale
n. 77/78, 2000

Ci deve essere una ragione per cui Sebastiano Brusco ha rappresentato un punto di riferimento per gli studenti della facoltà di economia a Modena negli anni '70, più dei docenti che si occupavano di teoria pura, di domanda aggregata, di moneta e tassi di interesse. In quegli anni, da tutta Italia, erano convenuti a Modena studenti e professori uniti nell'idea che fosse possibile costruire una nuova economia, a partire dalla regolazione del mercato e dello sviluppo, ma anche da una nuova centralità del lavoro, lavoro liberato, intelligente, produttivo. Tutti erano accomunati dall'idea che il lavoro e la tecnologia fossero componenti più importanti del capitale, della borsa e delle tecniche manageriali per il futuro di un paese. Essi costituivano una comunità scientifica "impegnata" nello studio delle questioni macro-economiche complesse, ma anche e soprattutto del lavoro umano, dei modi di organizzazione industriale, direttamente nei luoghi di produzione, nei sistemi periferici trascurati da altri economisti. In quegli anni di vivace scontro intellettuale, sui concetti base della teoria economica, quella comunità si distingueva chiaramente come scuola "non ortodossa": da un lato essa confermava, appunto, la centralità del lavoro come unità di misura del progresso tecnico e dello scambio, con una scelta di campo netta a favore dell'approccio classico, dall'altro confutava duramente gli elementi di positivismo che ancora rimanevano nella concezione marxiana, allora in voga nella sinistra levitante, dell'economia politica. "Anche un bambino sa che senza lavoro non ci sarebbe alcuna produzione di valore" e ciò nonostante non è possibile dimostrare scientificamente che il sistema capitalistico di distribuzione del valore tende "naturalmente" a produrre le forze che lo rovesceranno. Ecco, in estrema sintesi, l'affermazione base della scuola modenese di pensiero. Un'affermazione "eretica" che si accompagnava ad altre innovative: l'equilibrio (come insegnano Keynes e Sraffa) non si raggiunge senza la mano visibile della decisione collettiva, il mercato è una risorsa istituzionale importante da non demonizzare, ma neanche da mitizzare, la grande impresa e le economie di scala non sono l'unico motore delle nazioni più avanzate, gli investimenti sono un dispositivo importante per il funzionamento della società e non possono essere lasciati a decisioni individuali impulsive, etc. A Modena si imparava presto che il lavoro ridotto a merce, a puro costo sociale, non esiste. È stata una forzatura ideologica temporanea dei gruppi dirigenti della destra e della sinistra del '900. Non è vero che l'unico modo di produrre la ricchezza è dividere il lavoro tra chi progetta e pianifica il processo e chi si limita ad occupare un posto nella grande macchina statale o dell'impresa monopolistica privata. C'è uno spazio di libera espressione del lavoratore come tecnico, dell'artigiano come innovatore, che non può essere distrutto neanche dal più sofisticato Combinat sovietico o dal cervello sociale liberato dal giogo del profitto. Orologio e organismo. Lavoro astratto e lavoro concreto, lavoro vivo, semplice, complesso e lavoro morto, incorporato nell'organizzazione e nella tecnologia. Scelte di valore, in senso filosofico ed economico, hanno portato quell'insieme di studenti, ricercatori e valenti studiosi ad affrontare il mondo con molti dubbi, ma anche con una buona chiave di lettura: il lavoro è la sostanza del valore. Butera, Rosenberg, Baran e Sweezy, Sabel, Sylos Labini, Harry Braverman. Sono molti i compagni di strada scelti dalla comunità modenese, negli anni in cui Brusco teneva banco con le sue osservazioni sul "vino vecchio nelle botti di rovere". Sraffa, Becattini e Napoleoni, ma anche tanti dirigenti del sindacato italiano, come Vittorio Foa e Bruno Trentin (con il suo patto dei produttori), esperti della Banca d'Italia, ministri e tecnici di produzione. Il mercato, la concorrenza, la gerarchia dell'impresa o dell'industria, nel pensiero modenese sono solo modi diversi di organizzare il lavoro. Quest'ultimo, come unità tecnica e storica indipendente, precede e non è determinata dagli altri elementi del gioco dell'economia, è la salda roccia su cui si costruiscono modelli di gestione "economica" della società. Su questa base si innesta il contributo originale di Sebastiano Brusco, per anni occupato nell'analisi del lavoro concreto, nelle sue svariate forme e in particolare in quella forse più umana ed evoluta: quella dell'artigianato tecnico. E in questo suo specifico attaccamento alla dimensione pratica della teoria, che si ritrova la ragione per cui tutti gli studenti di Modena, senza eccezioni, sono rimasti affascinati dal suo pensiero. Dietro le formule complesse della contabilità nazionale, del rapporto tra risparmio e investimento, dietro i modelli di crescita delle economie meno sviluppate, dietro i sistemi algebrici di Sraffa e le riflessioni di J. M. Keynes sul tasso di interesse, Brusco riusciva sempre a trovare tracce del lavoro umano, della competenza tecnica, senza la quale nulla è possibile, neanche lo sviluppo capitalistico.Il lavoro come centro della società, come base della comunità locale e nazionale, il lavoro come espressione storica della cittadinanza, il lavoro artigiano e indipendente come alternativa alla grande macchina burocratica e all'impresa monopolistica. Proprio per questa chiave di lettura Sebastiano Brusco ha dedicato tutte le sue energie allo studio e alla valorizzazione delle piccole imprese, single handed enterprises, come solida alternativa alle grandi concentrazioni spersonalizzanti, come forma umana del lavoro, del mercato e della concorrenza. Per questa ragione Brusco ha aderito subito, con convinzione, al filone di studi inaugurato da Giacomo Becattini, con il suo distretto industriale "comunità di persone e popolazione di imprese" libere e indipendenti. Per questo ha a lungo contrastato l'approccio aziendalista al tema del lavoro, che insisteva troppo sul valore del management e sul vantaggio competitivo. Il vantaggio deriva dalla qualità di base del lavoro, come "unità indivisibile", come patrimonio di singoli operatori indipendenti, interessati a procedere insieme, secondo le regole solidaristiche, ma anche conflittuali della comunità. E Brusco apprezzava, della comunità, proprio le regole e i giochi intelligenti, anche quelli apparentemente "ingiusti e scarsamente solidali" del mercato. Da contadino qual era, egli è sempre stato un appassionato sostenitore della competizione tra uomini ad armi pari, affascinato dalle astuzie che permettono ai più svegli di metter sotto gli addormentati. Non aveva alcuna indulgenza caritatevole nei confronti di chi resta indietro e confidava nel fatto che l'intelligenza, soprattutto quella relazionale, fosse un bene diffuso in tutti gli strati della società e consentisse a tutti, entro le regole del libero mercato (come bene pubblico senza vincoli di accesso), di farsi avanti, migliorare la produttività del lavoro, accrescere la ricchezza personale e quella degli altri. Non ho mai sentito Brusco disponibile nei confronti della solidarietà al ribasso, dell'unione dei lavoratori astratti che difendevano rendite di posizione nelle grandi fabbriche fordiste. Brusco si è sempre battuto perché si riconoscesse il valore del lavoro concreto, la varietà delle competenze, la divisione del lavoro come integrazione di attività complementari (a cui tanto teneva Triffin, citato da Becattini nel suo libro dedicato al Concetto di Industria). Certo, una battaglia culturale doveva essere promossa nei confronti dei lavoratori prigionieri delle grandi fabbriche e delle gerarchie. Da questo punto di vista Brusco è sempre stato uomo di sinistra, e non poteva essere diversamente. Ma per lui, uomo di sinistra, i giochi dovevano essere riaperti: non è vero che la grande fabbrica funziona meglio della piccola (v. l'inchiesta sulla meccanica di Bergamo, condotta da Bruscso per la FLM nei primi anni '70), che le economie di scala sono determinanti e non si possono raggiungere anche in una singola fase del processo produttivo (v. le discussioni con Pratten o con G. Dosi), che il management centralizzato produce una qualità delle risorse umane e un capitale intellettuale superiore a quello della piccola azienda artigiana. Se l'unità di base è solida, se il lavoro umano è oggetto centrale dell'investimento, se la produzione di merci a mezzo di merci, viene effettuata con materie prime di altissimo profilo, non ci sono problemi di crescita economica e di successo nella competizione internazionale, anche per sistemi fondati sulla piccola dimensione. Non ci sono problemi ad avere uno sviluppo intenso e duraturo, soddisfacente in termini monetari e sociali, se l'attenzione è posta su due parametri: qualità del lavoro e struttura dell'industria o del settore verticalmente integrato (la qualità degli scambi e delle relazioni tra diverse componenti del processo produttivo). Da questa prospettiva Brusco è entrato in risonanza positiva con l'approccio becattiniano al distretto industriale, formula organizzativa molto prossima ai principi e ai valori che lo stesso Brusco preferiva. Ed è entrato in risonanza con le suggestioni del pensiero partecipativo, come testimoniano i saggi scritti con Fiorani e con Solinas. Ma il centro della sua attenzione scientifica e della sua battaglia politica restano le regole e i modelli di organizzazione del gioco industriale. Non c'è nulla di automatico nel funzionamento del distretto, non ci sono gli animal spirits del capitalismo e dell'interesse individuale, ci sono le organizzazioni della società e della comunità locale e le regole interne al sistema tecnico e alle relazioni verticali di processo. Brusco era affascinato dall'idea che tre diversi tipi di organizzazione industriale, la fabbrica integrata inglese (dal filato alla maglia finita), il sistema a rete di Benetton e il distretto di Carpi fossero economicamente equivalenti e si differenziassero soltanto per la qualità delle regole di scambio tra le fasi e per le caratteristiche delle risorse base disponibili a livello di singola fase del processo. Al tentativo di condizionare con apposite politiche il processo industriale dei sistemi di piccola impresa, Brusco ha dedicato libri importanti e grande parte del proprio tempo libero dall'università: le consulenze per il sindacato, per gli enti bilaterali, per le istituzioni regionali che intervengono sul mercato del lavoro e sui servizi reali. È Brusco ad aver concepito per la prima volta la necessità di intervenire a supporto delle reti di imprese attraverso investimenti finalizzati a rendere più efficiente la comunità dei produttori. Servizi reali, centri di competenza, centri di servizio tecnologico e quant'altro la mano visibile dello Stato può fare per rendere il gioco comunitario più efficace. Forse questo è stato un punto debole della filosofia politica di Sebastiano Brusco: un'eccessiva confidenza nella qualità del lavoro dei responsabili della politica e dell'amministrazione. D'altra parte Brusco era un profondo conoscitore del lavoro artigiano e industriale manifatturiero e aveva forse l'intima convinzione che il lavoro intellettuale e politico non fosse un vero e proprio settore dell'economia, una vera e propria professione (come sosteneva Weber). Il suo istinto da "volontario" lo portava forse a sottovalutare l'importanza del terziario e dei lavoratori indipendenti dei servizi. E proprio le istituzioni che avrebbero dovuto diventare settore di produzione, di sviluppo di un sapere tecnico specifico, lo hanno ricompensato meno del previsto. Lo scopritore del sapere tacito, ha confidato troppo nell'astuzia dell'artigiano politico emiliano, veneto e lombardo. Ma questo è un peccato veniale per un grande maestro, che più di altri ha affascinato per il linguaggio usato e per la semplicità e umanità del suo discorso. Nessun ragionamento astratto, pochissime formule matematiche di base, molti termini tecnici e storici che parlano del lavoro e della tecnologia. Forse è proprio in questi elementi culturali, difficilmente sintetizzabili in un sistema teorico complessivo, che possiamo ritrovare il fascino di Sebastiano (Bastianino per gli amici). Brusco di nome e di fatto, come la realtà che descriveva.

[Ultimo aggiornamento: 10/09/2012 10:20:04]